Negli ultimi, tormentati e tormentosi anni del calcio italiano, raramente un Consiglio Federale si era risolto con un trionfo simile a quello riportato ieri da Gabriele Gravina che ha vinto su tutta la linea. «Non sarò io il becchino del calcio», aveva avvertito il 22 aprile il presidente della Figc, nel pieno della pandemia e della contrapposizione frontale con il ministro per lo sport, molto tentato dall’imitare l’autogol di Macron in Ligue 1, affossando definitivamente la Serie A e, di riflesso, l’intero movimento. Più paziente di Giobbe, pronto a farsi concavo quando Spadafora era convesso e convesso quando l’altro si faceva concavo, Gravina ha mantenuto la parola. Imperforabile anche al fuoco amico, «fra mecenati e cialtroni siamo riusciti a ridare il pallone alla gente. Adesso il sistema ne esce più credibile e rafforzato. In questi mesi sono emersi i reali volti di alcune persone che non vogliono il bene del sistema. Ma siamo stati determinati e diamo un segnale forte. I nomi? No, li tengo per me». Così il presidente federale ha dichiarato il 31 maggio. Otto giorni più tardi, ha soggiunto: «Questa è la vittoria del calcio». E’ esattamente così.
Quel 18-3 che ha letteralmente spazzato via il Lodo Cairo, partorito per bloccare le retrocessioni dalla A alla B e le promozioni dalla B alla A, riassume plasticamente la nuova batosta rimediata dal presidente del Toro nel Palazzo del calcio, in una stagione dove in Lega come in Federazione, quando lui suona la carica scopre di suonare sempre a vuoto. Il campo e solo il campo assegna lo scudetto, decide le promozioni e le retrocessioni. Il campo e solo il campo: deve ricordarlo sempre, chi non antepone il bene collettivo alla propria causa; minimizza la cultura sportiva, snobba la passione e l’entusiasmo alla base di ogni sfida agonistica.
Per questo, il trionfo di Gravina è il trionfo del Benevento dell’imprenditore fuoriclasse Oreste Vigorito che, prima del consiglio federale, intervistato da Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport-Stadio, aveva messo le cose in chiaro: «L’unico criterio che riconosco è il merito sportivo, è la prova del campo. I nostri sforzi non solo economici, ma anche tecnici, hanno portato a un risultato che è davanti agli occhi di tutti, adesso sento parlare di blocco di retrocessioni e promozioni. Il Covid è vissuto da molti come una tragedia e da altri come un’opportunità, lo trovo inaccettabile. I presidenti che pensano di poter cancellare con un colpo di spugna gli errori commessi in sede di mercato o di gestione della stagione si sbagliano di grosso: il confine della sportività, del merito e del buonsenso non deve essere mai superato. Nel caso in cui prevalessero gli interessi della lobby il Benevento uscirebbe dal calcio e i Vigorito se ne andrebbero. Fine di una realtà bella, sana e virtuosa. Ai particolarismi io mi oppongo per principio. Qui c’è qualcuno che vuole tenersi il menu e lasciare a noi dei panini al formaggio scaduto. Siamo nel calcio da tanti anni, siamo stati vittime di scandali calcistici, abbiamo subìto di tutto e siamo rimasti in silenzio. Ma a tutto c’è un limite». Il trionfo di Gravina è il trionfo di Filippo Inzaghi, che in panchina sta bruciando le tappe come quando, da cannoniere, bruciava sul tempo le difese avversarie: sotto la sua guida, il Benevento ha giocato 28 partite: 21 vittorie, 6 pareggi, 1 sconfitta, 54 gol segnati, 15 subiti, 69 punti, 20 di vantaggio sul Crotone secondo e 22 sul Frosinone, terzo). Il trionfo di Gravina e è il trionfo degli splendidi tifosi sanniti. Gli stessi che il 13 maggio 2018, giorno delle retrocessione in B, tributarono un’ovazione alla loro squadra, festeggiandola come se avesse vinto lo scudetto e dando al mondo una lezione di civiltà sportiva. Ancora oggi, rende loro onore. Meritano solo gioia.