La stanza, negli uffici di Claudio Marchisio, è sufficientemente larga per rispettare abbondamente le distanze e ci saluta con il gomito. «Sembra quasi un’esultanza da sudamericani», ride. La forma è ancora quella del calciatore in attività, i pensieri iniziano a essere quelli dell’imprenditore (fra numerose attività spicca la sua agenzia di gestione dei diritti di immagine e la ristorazione). Il che rende particolarmente interessante il suo punto di vista sulla ripartenza del campionato. Perché Marchisio cerca di spiegare cos’è e cosa rappresenta il calcio a chi, come qualche politico, sembra coglierne solo la superficie, senza comprendere quando enorme, complessa e importante sia la macchina del pallone. Non vuole dare lezioni, non è mai stato nel suo stile, ma dare il suo contributo a un dibattito, quello sulla riapertura del calcio, che si è perso alcuni pezzi. E con tono pacato spiega. «In questo momento il calcio è nelle grinfie di questa situazione come qualsiasi altra attività, come qualsiasi persona. Ma se si parla di calcio bisognerebbe però sapere che si tratta di una delle prime dieci industrie del Paese, con un indotto molto importante e un movimento di massa che coinvolge milioni di persone di qualsiasi età. Il calcio non è solo l’élite di giocatore milionari che finiscono sulle copertine e sono i re dei social network».
E’ la punta dell’iceberg.
«Esatto è la parte più visibile e l’iceberg è profondissimo. Andando a fondo troviamo prima i giocatori di Serie B e di Serie C, che già hanno un altro tipo di trattamento economico, poi abbiamo i giovani tra i 19 e 20 anni che vorrebbero entrare nel mondo dei professionisti, ma non è detto che possano farlo. E scendendo abbiamo chi lavora con il calcio, chi svolge mansioni molto meno visibili di quelle dei calciatori, ma che grazie ai calciatori e al movimento che creano, può portare a casa uno stipendio per mantenere la propria famiglia. Mi riferisco ai magazzinieri, ai fisioterapisti, agli addetti alla sicurezza, a tutti i giornalisti e operatori dei media che portano il calcio nelle case degli appassionati, al personale che permette alle società, grandi e piccole, di funzionare, finanche agli steward che spesso sono universitari che con quei pochi soldi riescono però a coprire qualche spesa o padri e madri di famiglia che così riescono a far quadrare i conti a fine mese. Il calcio è una macchina enorme, trainata dai giocatori più visibili e pagati, ma dentro la quale ci sono quasi duecentomila persone che vivono di pallone».
E hanno un ruolo importante all’interno della società.
«Esatto. Bisogna dare grande attenzione al calcio, ma soprattutto conoscerlo fino in fondo. Io dentro al calcio ho trascorso poco meno di trent’anni della mia vita, iniziando da ragazzino grazie ad allenatori che non guadagnavano certo come Mourinho, ma che mi hanno insegnato tanto e non solo di pallone. Allenatori che svolgono spesso la funzione di educatori e il cui ruolo va tutelato perché di fondamentale valenza sociale, come quello degli allenatori di base di qualsiasi sport. Poi sono diventato un professionista di alto livello completando un percorso al quale hanno contribuito centinaia di persone, che nessuno vede o conosce, ma permettono il funzionamento di un sistema che produce quasi 4 miliardi di euro di ricchezza, più altri 8 di indotto e che paga all’erario 1,2 miliardi di tasse all’anno».