«Mario Corso è stato il più grande di tutti negli Anni ’60. E dopo non c’è più stato uno come lui in Italia». Apre così l’intervista concessa da Sandro Mazzola, pilastro della Grande Inter, ai microfoni de La Stampa,
Eravate i creativi della Grande Inter.
«Sì, ma Mario inventava più di me. Tutti lo ricordano per le punizioni. Il suo pezzo forte, però, era un altro. Quando non riuscivamo a sbloccare le partite, aveva un metodo infallibile. Guardava verso destra, la difesa avversaria si spostava da quella parte e lui lanciava a sinistra spiazzando tutti. In quella zona di solito c’ero io. Il pallone girava a poco a poco seguendo la traiettoria del suo magico piede mancino e mi pescava libero al limite dell’area. Quanti gol mi ha fatto fare».
Quindi ha inventato anche i passaggi “no look”, non solo le punizioni a foglia morta?
«Sì. La cosa bella era in allenamento. Faceva spesso lo stesso giochino. I giocatori più vecchi si arrabbiavano perché non capivano e facevano una figuraccia. Io invece avevo intuito che era una mossa decisiva per vincere».
È ricordato come un grande giocatore, ma forse è stato ancora più forte rispetto alla percezione generale.
«Sì, è stato il numero uno. Ma se questa idea non è generalizzata dipende anche dal suo carattere, non incline alle pubbliche relazioni».
Com’era fuori dal campo?
«Furbissimo. Dopo la partita andavamo in ritiro in un hotel in Piazzale Lotto, vicino allo stadio. Tutti avevamo voglia di divertirci e cercavamo di uscire. Herrera lo sapeva e ci faceva marcare stretto da collaboratori, massaggiatori e magazzinieri. Ogni uscita era presidiata, ma Mario la faceva franca. “Anche questa volta non mi ha scoperto”, diceva divertito quando tornava in camera a notte fonda».
Il rapporto con Herrera era altalenante?
«Non era buono. Infatti, alla fine di ogni stagione, il Mago chiedeva la cessione. Ma Angelo Moratti, che adorava Corso, faceva finta che non erano arrivate offerte. Così Mario restava. Aveva un carattere particolare. Non sempre faceva quel che diceva Herrera. Spesso durante le partite adottava in autonomia soluzioni tattiche. Il bello è che spesso ci azzeccava. Così, a fine gara, Herrera si vantava di queste mosse, come se le avesse decise lui. Noi sapevamo che non era così e ridevamo come matti».
Siete rimasti amici anche a fine carriera?
«Sì, avevamo un rapporto davvero bello. Per tanti anni, dopo aver smesso di giocare, ci trovavamo in un bar di Via Veniero, vicino alla vecchia Fiera. Era la strada da cui partiva il pulmino che portava i giocatori agli allenamenti di Appiano. Noi non dovevamo più prenderlo. Ma ci piaceva andare comunque lì a bere qualcosa».