Non fu un’esperienza densa di soddisfazioni (anzi!) quella di Maurizio Sarri sulla panchina del Verona. Stagione 2007/08, la squadra gialloblù, a quei tempi, navigava nei bassifondi della Serie C1. A fine anno, la svolta: con l’ultimo posto in classifica serve una scossa e l’allora presidente Pietro Arvedi decide di rimandare Davide Pellegrini (a sua volta subentrato a Franco Colomba) ad allenare la Beretti e ingaggia Sarri. Il primo gennaio 2008 il futuro tecnico della Juventus si presenta con queste parole a Verona: «Intanto faremo un lungo ritiro per conoscerci, poi confido in qualche aiuto dal mercato e quindi daremo la parola al campo». La scelta di accettare Verona, Sarri la spiegò così: «Non potevo dire no perché un blasone come quello dell’Hellas è irrinunciabile».
E poi la sua ricetta che, a leggerla bene, ricalca perfettamente il suo credo calcistico. «Vedrete una squadra con il baricentro alto, costantemente proiettata alla ricerca del gol. Ci saranno due mediani bassi e due ali aggressive, vecchio stampo. Dovremo avere ritmi elevati e andremo alla ricerca di spazi da attaccare senza palla. E poi io amo il pressing e la coralità di gioco». Arrivava, Sarri, in un’autentica polveriera. Verona, in quel tempo, non accettava di vedere la squadra che fu campione d’Italia nel 1984/85 perdersi nei meandri della C1, con il rischio di retrocedere. Sarri sapeva che l’impresa non era facile e al suo primo approccio cercò le parole giuste, quelle del pompiere che deve cercare di spegnere la fiamma che avrebbe potuto trasformarsi in incendio. «Dovremo soffrire – mise le mani avanti – ma questi sei mesi che ci aspettano saranno decisivi per il futuro del Verona. E l’obiettivo non potrà che essere uno solo: la permanenza in C1 per poi ripartire, con rinnovate ambizioni, nel prossimo campionato».