Di Federico Mariani
In questi ultimi anni si è discusso a lungo di un calcio italiano in crisi di talenti nostrani. Troppo poco “made in Italy”, con conseguenze gravi su tutto il sistema nazionale. Eppure ci sono storie che testimoniano come non sia impossibile creare piccole grandi imprese con il semplice entusiasmo di un gruppo compatto, con un nucleo a tinte esclusivamente azzurre. Ne è un esempio il Piacenza che negli Anni ’90 conquistò la Serie A, riuscendo a rimanervi per quattro stagioni consecutive, dal 1996 al 1999. A guidare la difesa di quella formazione entrata nei cuori degli appassionati nostalgici del campionato italiano c’era Settimio Lucci. Leader silenzioso, guidava il reparto arretrato dando per primo l’esempio, senza sottrarsi ad alcun duello contro i mostri sacri che popolavano la massima divisione. Cresciuto calcisticamente a Roma, ha deciso di sposare la causa di un’altra Lupa, quella emiliana, legandosi alla realtà piacentina anche al termine della sua carriera. Lucci si è raccontato in esclusiva ai nostri microfoni.
Settimio, come ha attraversato l’ultimo periodo con l’emergenza Coronavirus?
“Vivo a Piacenza. È stata una situazione difficile perché la città e la provincia sono state pesantemente falcidiate. Conosco persone che sono state coinvolte. Purtroppo è stato un trauma per tutti. Il calcio è passato in secondo piano. Al Centro-Sud non si sono resi conto della gravità di quanto accaduto qui al Nord”.
A proposito di calcio, come valuta la ripresa della stagione anche in Italia? Si sente più vicino alla presa di posizione adottata dalla Francia che ha anticipato la conclusione del campionato?
“La Francia ha preso questa decisione forse troppo frettolosamente, anche se quelle viste in Coppa Italia mi sembra partite falsate: mancano il pubblico e condizione fisica e non c’è la concentrazione giusta. Ma al di là di ogni parola, ci sono aspetti economici forti da salvaguardare. Per esempio, la Lega Pro è stata ripresa solamente per decretare le promozioni”.
Ovviamente la differenza economica tra Serie A e campionati cadetti resta molto forte.
“La Serie A ha tutte le possibilità economiche per supportare questi protocolli di sicurezza. Scendendo di categoria, si va in sofferenza. In Lega Pro hanno creato i playoff volontari perché ci sono squadre come Carpi e Bari che volevano salire. È uno scenario complesso: basti vedere i calciatori di Serie A, che dispongono di un livello diverso rispetto ai loro colleghi di B e Lega Pro, ma fanno comunque molta fatica durante gli incontri”.
Secondo lei, quali potrebbero essere gli scenari in Serie A alla ripresa della stagione?
“Secondo me la Juve rischia di non conquistare il campionato. È la squadra più forte, ma la Lazio e l’Inter non vincono da tempo e sono animate da motivazioni forti: entrambe hanno voglia di rivalsa. I biancocelesti sanno di avere un’occasione importante, i nerazzurri sono rivali storici e hanno in squadra chi vuole prendersi una rivincita sulla Juventus. Forse, per certi aspetti, è stato un bene per la squadra di Sarri aver perso la Coppa Italia. Ora si renderà conto di rischiare grosso anche in campionato. In questo modo, non potrà rilassarsi. Penso sia impossibile avere particolari certezze in questo momento. A discolpa del tecnico bianconero si può dire che non c’era la possibilità di prevedere il livello della squadra al ritorno in campo. Hanno giocato alla pari la finale, anche se il Napoli aveva più motivazioni e avrebbe meritato di vincere nei 90 minuti”.
Si può fare un confronto tra il suo calcio e quello attuale?
“Il calcio è cambiato profondamente. I campioni della mia epoca giocherebbero anche ora. Quel che è cambiato negli ultimi anni è la scienza, entrata fortemente nella preparazione e negli allenamenti. Ogni calciatore è seguito rigorosamente. Quando finisce la partita, lo staff conosce già quanti chilometri ha percorso, il tipo di spostamento… E poi gli allenamenti sono mirati e specifici per ogni giocatore. Quando giocavo io, non c’era questa personalizzazione”.
Lei si è affacciato in prima squadra nella Roma in una stagione non banale: quella dello scudetto giallorosso nel 1983. Cosa significava per un giovane vivere in quel gruppo di campioni?
“Io ho fatto tutta la trafila nella Primavera e mi allenavo con la prima squadra con Nils Liedholm. Era bello perché c’era l’opportunità di confrontarsi con alcuni grandi campioni, certamente più forti di tanti big attuali. I fuoriclasse spesso sono tali anche fuori dal campo, a differenza di giocatori normali che a volte si rivelano validi sul terreno di gioco e inadeguate fuori. Spesso i campioni sono tali anche nella quotidianità. E lo posso assicurare per Paolo Maldini e Carlo Ancelotti, due con cui ho avuto la fortuna di giocare”.
Tre anni dopo lo scudetto, la Roma avrebbe potuto vincere un altro tricolore, ma sbandò contro il Lecce. Cosa le è rimasto di quel dramma sportivo?
“Avevamo fatto una rincorsa eccezionale. Purtroppo andammo a perdere quella partita in maniera incredibile. È successo quando non doveva succedere. La Juve era piantata e noi stavamo molto bene. Siamo scivolati sulla classica buccia di banana alla penultima giornata. Ricordo che, essendo in panchina, avevo comunque la certezza di pareggiare o vincere anche quando eravamo sotto di un gol. In realtà era una partita maledetta, perché si è giocato a una porta. È stato qualcosa di particolare: noi tiravamo e non segnavamo, mentre loro, non appena scendevano in contropiede, facevano gol. Un peccato anche perché l’Olimpico era pieno fino all’orlo. Quando è finito il match, siamo rientrati negli spogliatoi e siamo rimasti a guardarci in faccia. Non riuscivamo a crederci”.
A Roma ha trovato prima Nils Liedholm e poi Sven-Goran Eriksson. Erano due mondi distanti o c’erano punti in comune?
“Sono due allenatori assolutamente diversi tra loro. Liedholm aveva carisma e idee diverse. Predicava un gioco particolare con un forte possesso palla. Eriksson, invece, giocava sulla verticalizzazione, sul pressing asfissiante e sulla fisicità. Avevano in comune solamente il fatto di essere svedesi. Liedholm seguiva molto i giovani. Voleva sempre almeno tre o quattro ragazzi nei ritiri. Insieme a Giannini ho avuto l’opportunità di lavorare con la prima squadra”.
Nel 1986 consolò i tifosi romanisti per la perdita dello scudetto con la vittoria in Coppa Italia. Una bella soddisfazione vincerla da protagonista.
“Quell’anno molti giocatori della squadra titolare andarono ai Mondiali in Messico. Ci fu molto spazio per chi aveva giocato meno. Fu una grande soddisfazione esserci in semifinale e finale. L’atto conclusivo con la Sampdoria fu l’ultima partita di Cerezo alla Roma. Si era strappato nella partita di andata, persa 2-1 a Genova, ma aveva fatto di tutto per tornare. Ci fu un cross su cui si avventò per il raddoppio. Vincevamo uno a zero, il suo gol chiuse i giochi. Sicuramente un bel modo per la salutare la Roma da parte sua”.
Dopo la Roma scelse Empoli e Udinese per rilanciarsi. Immagino che non fu semplice lasciare i giallorossi.
“A Roma avere la possibilità di trovare spazio era abbastanza complicato. Ho scelto di andare a giocare per avere più continuità. Ho fatto esperienza a Empoli e Udine. Questo mi permetteva di restare nelle Nazionali giovanili”.
Lei ha giocato in un campionato ricco di fuoriclasse. Ce n’è uno che realmente era il più grande?
“Il calcio che ho vissuto, tra Anni ’80 e ’90, era davvero pieno di campioni, ma uno era davvero fuori classifica e sto parlando di Diego Armando Maradona. Ho giocato anche contro il Milan di Marco Van Basten e Ruud Gullit. Due grandi campioni, ma Maradona è qualcosa a parte, è l’essenza del calcio. Era sornione inizialmente, anche se in un secondo risolveva le partite. Tutte le persone che lo hanno incrociato non possono non ammettere la sua grandezza in campo. Non ha mai accampato scuse e non si è mai lamentato per le entrate che subiva dai difensori. Non lo giudico come persona. Credo che le sue disavventure siano state anche figlie delle pressioni che doveva sopportare”.
Poi l’arrivo a Piacenza nel 1991.
“La definisco l’esperienza più importante della mia carriera. Il Piacenza era una squadra che era salita dalla Serie C. Era il club di una provincia abbastanza sconosciuta. C’era chi non sapeva se era in Lombardia o in Emilia. Sono stati gli anni più belli. Abbiamo vinto il primo campionato storico in Serie B e siamo retrocessi dalla A nell’anno in cui la Reggiana vinse a Milano in maniera discutibile… Risalimmo con una squadra da record: siamo riusciti a conquistare la promozione a otto turni alla fine, giusto per rendere l’idea del distacco incredibile che abbiamo rifilato agli inseguitori. Siamo riusciti a salvarci per due anni, un traguardo importante per Piacenza. Inoltre era una squadra in cui giocavano solamente calciatori italiani. Il contrario di quanto accade adesso dove è difficile trovare talenti azzurri. Ce la giocavamo alla pari con tutti e anche questo ha contribuito a creare un feeling straordinario con la città. Lo abbiamo visto in questi mesi di clausura, quando tanti amici ci hanno cercato per le dirette Facebook o Instagram”.
In Serie A si è anche toccato l’apice della rivalità con la Cremonese nei derby del Po.
“La Cremonese era la rivale storica. I derby erano molto sentiti da parte della gente e dei giocatori, anche se con la massima correttezza da parte di tutti. Non ricordo problemi particolari in nessuna partita. La rivalità è rimasta intatta ancora adesso anche se la Cremonese è in Serie B e il Piacenza in Lega Pro in una situazione di sofferenza”.
Com’era nata la scelta di puntare su una squadra esclusivamente composta dagli italiani? Fu una decisione forzata o si trattò di un progetto ben preciso?
“Si trattò di una scelta societaria dettata dal Presidente Leonardo Garilli e dall’allenatore Luigi Cagni. Fu una decisione giusta e ponderata. Non avevamo un’area scouting così imponente da osservare altri talenti stranieri sconosciuti. Al massimo ci si poteva appoggiare a un club maggiore che girava in prestito o a procuratori che suggerivano di acquistare questo o quel giocatore. Però si sarebbe dovuto acquistare a scatola chiusa. Il presidente ha preferito mantenere una struttura solida, puntando sulla forza del gruppo. Una decisione che col senno di poi si è dimostrata vincente. Al primo anno di Serie A, nel 1993/94, siamo retrocessi facendo un punto in meno della Reggiana. Fu anomalo che il Milan, fresco campione d’Italia, avesse perso in casa. Tra l’altro noi giocammo il venerdì e pareggiammo 0-0 a Parma. La Reggiana giocò la domenica conoscendo già il nostro risultato. Dall’anno dopo si fecero giocare in contemporanea le partite cruciali… Quella è una macchia che porterò dentro di me per sempre. Siamo stati defraudati. Non sto dicendo che saremmo rimasti sicuramente in Serie A, ma sarebbe stato giusto che queste due squadre si giocassero la permanenza in uno spareggio normale. Retrocedere così ci ha lasciato l’amaro in bocca. Non lo reputo giusto. Inoltre il Milan fu senza rispetto”.
Ha avuto comunque modo di rifarsi con la straordinaria salvezza al termine del campionato 1996/97, con l’incredibile spareggio del San Paolo di Napoli.
“Nella stagione precedente ci salvammo con Cagni e al suo posto arrivò Bortolo Mutti. Conquistammo la salvezza contro il Cagliari. Però purtroppo erano passati alcuni anni dalla retrocessione controversa. Quindi la rivincita non fu per tutti. Qualcuno della vecchia squadra non c’era più. La sua carriera sarebbe stata diversa. Retrocedere è sempre qualcosa che rimane e c’è chi ha visto la storia sportiva condizionata da quel risultato negativo. Per di più fa rabbia ripensare alle dichiarazioni di alcuni elementi del Milan. Non ho rispetto per loro. È giusto essere corretti con tutti, non si può giustificare quella partita dicendo che noi del Piacenza avremmo dovuto fare più punti prima dell’ultima giornata. Parlare in questi termini è irrispettoso. Hanno dimostrato di non essere dei fuoriclasse al di fuori del terreno di gioco”.
Quali sono i suoi ricordi dello spareggio salvezza contro il Cagliari?
“L’atmosfera prima di entrare in campo era davvero speciale vedendo al San Paolo di Napoli i 30.000 cagliaritani e i nostri 4.000 tifosi piacentini. Leggere alcuni pronostici che consideravano il Cagliari salvo e ci vedevano praticamente spacciati ci ha dato forza per giocare senza pressione. Quando sei in campo, le cose cambiano, le chiacchiere stanno a zero”.
Come accennava prima, ha vissuto intensamente il periodo del Piacenza “made in Italy”. Cosa voleva dire stare in quel gruppo?
“Abbiamo avuto dei gruppi eccezionali. Sono rimasto molto legato alla squadra con cui abbiamo vinto il campionato per la prima volta. Abbiamo una chat e ci sentiamo tutti i giorni. Scherziamo come se fossimo ancora nello spogliatoio. Non sembra sia cambiato molto da quel periodo”.
Poi il capitolo con l’Hellas Verona.
“Dopo lo spareggio ho considerato chiuso il mio ciclo a Piacenza. Due salvezze di seguito erano state un grande traguardo e per questo ho pensato di lasciare. La stessa cosa era successa a Massimo Taibi che era andato a giocare al Milan. Inoltre i capisaldi della squadra iniziavano a invecchiare. Era giusto cambiare. Ho seguito Cagni perché lo stimavo come allenatore. Verona è una città bellissima. Il secondo anno vincemmo il campionato di B con Prandelli, che era molto attento ai giovani”.
Se tornasse calciatore, in quale squadra giocherebbe?
“Se potessi tornare a giocare, sceglierei il Piacenza. Possibilmente con il gruppo del primo campionato vinto”.
Se potesse, quale partita rigiocherebbe per cambiarne il risultato finale o per rivivere un’emozione speciale?
“Non cambierei nulla. Rifarei tutto. L’esperienza di Piacenza ha significato tanto. Rivivrei tutti quei momenti”.
Attualmente di cosa si occupa? È rimasto nel mondo del calcio?
“Ho lasciato da poco il ruolo di direttore tecnico della Vigor Carpaneto. Da circa una settimana lavoro col Fiorenzuola nel settore giovanile, sempre come dt. Vorrei mettere la mia esperienza a disposizione di una società con un passato importante, come testimonia l’esperienza in Serie C”.