TORINO – Mentre il ritorno di Massimiliano Allegri occupa i discorsi juventini, insieme al sogno di riabbracciare Paul Pogba, al rinnovo di Giorgio Chiellini e al possibile rientro di Andrea Barzagli nello staff, nei titoli ricompare il nome di Carlitos Tevez (che ha annunciato il suo ritiro a 37 anni). Ed è subito 2015, una delle stagioni più entusiasmanti dell’ultimo decennio bianconero, la prima con Allegri in panchina e l’ultima delle due con Tevez là davanti, a trascinare la squadra fino allo scudetto, alla Coppa Italia e alla finale di Champions League con il Barcellona, quando proprio un suo tiro resta il più grande rimpianto della carriera di Allegri. «Da quella posizione, in quella situazione, Tevez l’aveva sempre messa dentro. Ci riprovasse altre dieci volte non riuscirebbe a sbagliare neanche volendo. Quella notte, in quel momento, invece sbagliò», ha raccontato Max in un rilassassimo pranzo a Livorno di qualche anno fa, dopo il caffè e una tonnellata di pesce. Era il gol del potenziale 2-1 per la Juventus, dopo il pareggio di Morata. Chissà sarebbe cambiata la storia di quella partita e della Juventus stessa.
Tevez e l’amore dei tifosi della Juve
Non ha cambiato, quel tiro finito alto sulla traversa, l’amore profondo che il popolo juventino ha sempre nutrito e coltivato nel tempo per Carlitos, giocatore strepitoso e romanzesco essere umano. E’ stato alla Juventus due stagioni, 96 partite giocate e 50 gol. E ha, senza dubbio, lasciato una traccia emotiva molto più profonda di quanto sia finora riuscito Cristiano Ronaldo che di gol ne ha segnati il doppio (curioso il confronto fra i due caretteri: l’argentino orgoglioso della sua bruttezza, il portoghese così maniacalmente condizionato dal suo aspetto).
Tevez, la storia
Tevez si incastra nella storia della Juventus nel momento giusto e al posto giusto. Dopo la rinascita del post-Calciopoli e i primi due scudetti di Conte, è il primo grande fuoriclasse internazionale che viene ingaggiato con magistrale manovra dlla coppia Marotta–Paratici. Il suo arrivo viene festeggiato come uno scudetto, con un inusuale affaccio dal balcone a salutare una folla di tifosi assiepati poco sabaudamente sotto la sede. Perché Tevez non firma solo un contratto, timbra un passaporto per sognare a tutta la gente juventina, che dopo essere tornata a rivedere le stelle dall’inferno in cui era precipitata nel 2006, non riusciva ancora a mettere a fuoco i nuovi orizzonti. Tevez era la risposta: sì, la Juventus era tornata ad attirare e riuscire a ingaggiare un campione di altissimo livello, la risalita continuava.
Tevez e quel pomeriggio in redazione
Tevez prende la 10, quella di Del Piero. Non ha un attimo di esitazione. D’altra parte ha un concetto di paura tarato su altre scale. Quando viene a farci visita a Tuttosport, in un memorabile pomeriggio con contorno, da lui graditissimo, di mate e empanadas, risponde con uno sguardo torvo alla domanda sui timori che possono accompagnare un giocatore che scende in campo al Bernabeu (di lì a poco si sarebbe giocata Real-Juve). «Ma cosa dici? Hanno forse tolto le recinzioni al Santiago? No, perché io ho iniziato a giocare per strada, nei barrios più poveri di Buenos Aires, dove la gente guarda la partita sul marciapiede e scommette: i soldi in una mano, il coltello nell’altra. Le sospensioni delle partite non avvenivano per pioggia, ma perché nelle vicinanze poteva scoppiare una sparatoria ed era meglio mettersi al sicuro per una mezzora. Uno stadio con la gente in tribuna non può farmi paura, mica vogliono accoltellarmi no? Sono venuti a vedermi. Al massimo sono loro che possono aver paura di me». Non era bullismo, spiegava il suo punto di vista senza la pretesa di impressionare nessuno, la bombilla di mate in mano e l’aria di chi, dopo tanto tempo, non si è ancora a suo agio nello stare al centro dell’attenzione.
L’Apache, la leggenda
Troppo spesso, però, lo sfregiato di Forte Apache nella narrazione ha prevaricato il fenomenale calciatore. Perché sì, Tevez aveva avuto un’infanzia da noir latinoamericano e ne portava orgogliosamente i segni sul viso e sul collo, ma era un attaccante mostruoso per tecnica, senso tattico, generosità e capacità atletiche. Ha unito il senso del gol, da centravanti istintivo, a una non comune capacità di leggere le situazioni delle partite. Lo trovavi ovunque in una Juventus che aveva costruito la sua forza proprio su quel senso di solidarietà agonistica, per la quale tutti si aiutavano nei momenti difficili della partita. Tevez sublimava quello spirito con la classe, perché oltre a raddoppiare una marcatura a centrocampo, era in grado di saltare l’uomo (o gli uomini, come nel leggendario gol al Parma, in cui ne dribblò tre di fila scendendo maradonescamente dalla sua metà campo alla porta avversaria), segnare gol di potenza assoluta (il “bombazo” al Genoa), inventare assist (citofonare Morata e Llorente per referenze), trasformare punizioni dal limite, lanciare missili terra-aria da fuori area (il gol del Milan a San Siro) e inventare traiettorie da giocatore di biliardo (tradizione assai argentina, peraltro).
Juve, Manchester United, City e Boca Juniors
La Juventus è stata solo un capitolo, neanche dei più lunghi, della carriera di Tevez che ha alzato la Champions con lo United (giocando con il giovane Ronaldo, con cui condivide il giorno di nascita, 5 febbraio, ma di cui è più vecchio di un anno), ha vinto la Premier con il City, ha scritto la storia del suo amato e leggendario Boca Juniors. Tuttavia racconta spesso dell’eterna gratitudine alla Juventus, la squadra che gli ha fatto «tornare l’amore per il calcio» in un momento critico della sua carriera. Gratitudine reciproca, perché Tevez si è preso un pezzo di cuore dei tifosi con quel non risparmiarsi mai, in nessuna situazione e in nessun momento, che qualche volta conta quanto i gol e sicuramente molto, molto più dei record.