TORINO – La missione sarà compiuta soltanto a scudetto vinto perché, come Antonio Conte ha spiegato pure a Napoli, «Tutti sono capaci di fare un buon lavoro, in pochi sono in grado di vincere. Rimanere all’Inter ma non alzare trofei non ti farebbe entrare nella storia del club». L’allenatore può già considerare concluso il lavoro per cui era stato chiamato, considerato che è riuscito nella impresa non solo di ripetere, ma addirittura migliorare quanto fatto nel primo biennio a Torino. Nelle prime 69 partite alla Juve, Conte aveva ottenuto 155 punti, alla media di 2,24 punti/partita; all’Inter sono già 157 (media 2,27). Certo, l’allenatore vinse pure il primo anno lo scudetto, ma non si fa certo torto alla storia ricordare la differenza che passa tra il Milan di Allegri con la corazzata guidata da Sarri che aveva conquistato otto campionati consecutivi prima di vincere il nono nell’estate della pandemia. Al netto dei “titoli” che restano il primo metro di paragone per giudicare la parabola di un allenatore nella storia di un club, va riconosciuto quanto il lavoro dell’ex ct sia stato impattante sul rendimento dell’Inter che nel biennio spallettiano aveva sempre centrato la qualificazione Champions, però all’ultima giornata di campionato. Quando si era presentato, Conte aveva parlato di “gap” da annullare: oggi è l’Inter a essere stella cometa per la concorrenza: prevederlo soltanto un anno fa sembrava quanto meno un esercizio di grande ottimismo nei confronti di un progetto che ha fatto vedere tutte le sue potenzialità nella cavalcata europea chiusa con la sfortunatissima finale di Europa League persa con il Siviglia.
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