Ho conosciuto Davide Nicola un giorno di febbraio di quattro anni fa. Lui allenava il Crotone che annaspava in fondo alla classifica della Serie A e veniva dipinto come già retrocesso. Io andavo in giro per l’Italia a raccontare storie di sport. Ci siamo incontrati a Steccato di Cutro, località balneare sullo Ionio, a 40 chilometri da Crotone. La squadra pitagorica si allenava lì. Oggi non mi stupisce che la rinascita del Toro porti il nome del torinese torinista Nicola. Non mi stupisce perché penso che l’impresa granata di cui egli è titolare dal 19 gennaio scorso, affondi le radici in ciò di cui fu capace nella passionale e appassionata realtà del club di Gianni e Raffaele Junior Vrenna, del formidabile scopritore di talenti a nome Beppe Ursino. Una realtà unica e ammirevole, che tale rimane, anche se la seconda avventura in Serie A non è stata baciata dalla fortuna.
A Crotone, nell’andata Nicola inanellò la miseria di 9 punti e girò all’ultimo posto. Al ritorno, di punti ne totalizzò 25, di cui 20 fra aprile e maggio. Si salvò all’ultima giornata e per Crotone fu come se avesse vinto lo scudetto. Quel giorno a Steccato di Cutro, raccontandomi la sua idea di calcio, mi colpì una frase di Davide: «Tutti dicono che siamo spacciati, che non ci salveremo mai, che non abbiamo speranza. Io, invece, guardo i miei giocatori mentre si allenano e capisco che ce la faremo. Vedo quanto si impegnano, quanto ci danno dentro, quanto sgobbano. La gloria maggiore di un uomo non risiede nei suoi errori, ma nella sua capacità di risollevarsi ogni volta che cadiamo». Scoprii più tardi il riferimento alla massima di Confucio e, ripensando alla filosofia Kaizen citata dall’allenatore prima della trasferta di Udine, ne ho dedotto che tutto si tiene, anche in Nicola. Kai: miglioramento, cambiamento; zen: buono, migliore. La forza segreta dell’ex ragazzo di Luserna San Giovanni affonda le sue radici anche nel dolore tremendo con cui la vita l’ha messo alla prova e al quale ha reagito con una straordinaria prova di volontà, di coraggio, di determinazione. Tutto ciò che Nicola sta trasmettendo al suo Toro e, questo, i tifosi l’hanno capito.
Da quanto tempo, vivaddio, non vedevamo giocare i granata come hanno giocato contro la Roma, semifinalista di Europa League, dov’era approdata tre giorni prima eliminando l’Ajax, due anni fa semifinalista di Champions? E come non rimarcare il rapporto speciale intrattenuto da Nicola con Belotti, sul campo capace di incarnare perfettamente l’archetipo del granata vero o del vero granata, che poi sono la stessa cosa? La strada che porta alla salvezza è ancora lunga e lastricata di ostacoli, il Toro lo sa bene e dietro l’angolo si staglia già la sagoma inconfondibile di Sinisa Mihajlovic. Nel frattempo, Urbano Cairo farebbe qualcosa di molto granata accelerando i tempi della conferma di Nicola e del prolungamento di contratto di Belotti. L’uno e l’altro incarnano i valori dello sport. Sono l’immagine autentica di che cosa sia il calcio vero; il calcio che amiamo, impastato di storia, di passione, di rispetto dell’avversario da contrapporre al plastificato torneo privato chiamato Superlega, insopportabile, commerciale oltraggio alla natura stessa del football.