La Thailandia, le notti di Champions
Un derby in famiglia, un paio di scarpe bianche e quella predisposizione naturale per battere sentieri ancora tutti da scoprire. Marco Simone oggi è un uomo e un padre, ma non ha perso per strada il suo spirito fanciullesco. Lo stesso che metteva in gioco da bambino al fianco dei suoi zii rossoneri ogni domenica a San Siro. Simone, il figlio di un parrucchiere interista di Castellanza, così è diventato tifoso milanista e così ha imparato a sognare. E anni dopo in quel Milan ci ha persino giocato. Con gli Immortali di Sacchi e con gli Invincibili di Capello, Marco però è rimasto il ragazzo di sempre. Quello con le scarpe fuori dal coro, bianche. Quello che ascoltava prima di tutto il suo istinto, senza fare calcoli. Per lui Maldini è stato un faro, Van Basten un esempio soprattutto nella sofferenza, Weah un fratellone e l’uomo che forse per la prima volta lo ha messo di fronte ad usi e costumi diversi, gli stessi che Marco ha ritrovato nelle sue mille vite avute dopo il calcio giocato. Simone ha allenato in tre continenti su cinque. Gli manca l’Italia. Per farlo è pronto. Aspetta solo che arrivi la chiamata giusta.
Marco, lei oggi fa l’allenatore: è stato in panchina un po’ ovunque, vero?
Ho girato il mondo, ma non ho mai allenato in Italia. Sono una persona che ama cercare e provare progetti diversi da quelli più comuni. Sono stato il primo giocatore italiano ad andare all’estero: sono partito per Parigi, Vialli e Zola sono andati in Inghilterra dopo di me. Questa predisposizione a provare cose diverse ha caratterizzato anche il mio percorso da allenatore. Ho avuto la prima opportunità al Monaco in Serie B, poi sono arrivate occasioni da tutto il mondo, le ho sempre prese al volo. Le scelte vengono sempre fatte in base alle offerte che arrivano. Purtroppo non mi è mai stata data l’opportunità di allenare in Italia. Ho lavorato tra A e B all’estero: sono stato in Francia, in Svizzera, in Tunisia e Marocco, poi in Thailandia.
Nel 2018 lei è stato vicino al Milan però…
Mi era stata proposta la guida tecnica della squadra B. Quella è stata la mia unica vera opportunità in Italia, ma si è rivelata una delusione. Era un bellissimo progetto, l’unico che avevo scelto senza guardare la categoria. Mi avrebbe portato ad allenare il Milan in Serie C, è vero. Però mi sembrava il modo migliore per tornare in Italia.
Che cosa non è andato?
Io e il mio staff tecnico avevamo firmato un biennale, la proprietà del Milan era cinese, c’era il direttore sportivo Mirabelli, l’allenatore era Gattuso. Avevamo fatto delle riunioni con Mario Beretta, all’epoca coordinatore del settore giovanile del Milan. Bisognava organizzare la squadra B e di conseguenza quelle che venivano dopo, la Primavera guidata da Alessandro Lupi e gli Allievi. Abbiamo lavorato per due-tre mesi. Ho saputo che sarebbe cambiato qualcosa il giorno prima del primo allenamento: ero in macchina diretto a Milano col mio staff. Noi avevamo convocato la squadra. Al sabato c’è stato il cambiamento di proprietà e tutto è stato messo in stand by. Dopo una settimana di attesa ci è stato comunicato che il progetto non sarebbe andato avanti.
Ha provato delusione per questo?
Sarei tornato volentieri in Italia dalla porta che preferivo: il Milan. Ci tenevo tanto. Avevo messo in stand by tutti. Purtroppo dopo quel ‘no’ ho passato un periodo difficile: per sei mesi sono rimasto senza squadra. Per quel motivo sono partito a dicembre per la Thailandia: è stato un modo per staccare, sono andato lontanissimo e ho trovato un mondo fantastico. Lì c’è un calcio all’avanguardia che migliora più rapidamente rispetto al nostro. A Bangkok ci sono cinque squadre che possono competere coi grandi club europei a livello di budget. Ho trovato una realtà fantastica che non mi aspettavo. Sono andato al Ratchaburi. Nel club c’era un membro del mio staff tecnico che avrei voluto portare con me al Milan. Da lì è partito tutto e sono arrivato in Thailandia.
In Thailandia lei ha preso il posto del suo ex compagno Christian Ziege: cosa ricorda?
Christian ha allenato la squadra per poche gare. Col presidente del Ratchaburi ci sentiamo dopo ogni partita. Non era facile da gestire: lì sono tutti molto autoritari e vogliono dire la loro. Ziege non era riuscito a gestire quella situazione, io ce l’ho fatta. Ad un certo punto ho deciso di lasciare la Thailandia: è il mio unico rimpianto. Avevo avuto un’offerta dal Marocco. Mi mancava casa: in cinque-sei mesi avevo visto solo una volta la mia famiglia che vive a Monaco. Ho deciso di avvicinarmi all’Europa. In Thailandia poi c’è grande sportività. Alla fine di ogni partita, io allenatore devo aspettare che gli avversari vengano a ringraziarmi. Poi la mia squadra deve fare la stessa cosa nei confronti del loro tecnico. Poi l’allenatore e i suoi uomini vanno sotto la curva dei tifosi avversari per omaggiarli, quindi sotto la propria. Succede a prescindere dal risultato. Sono situazioni straordinarie che fanno entrare in una dimensione diversa da quella europea.
Che cosa ha vissuto in Africa invece?
Prima di andare in Thailandia ho allenato una grandissima squadra in Tunisia, il Club Africain. Conosco bene il Maghreb. Tunisia e Marocco si assomigliano tantissimo, c’è una gestione particolare sotto vari aspetti: dalla religione alla cultura fino alle abitudini alimentari. In tutti i posti in cui sono stato mi sono sempre trovato bene perché ho avuto sempre la capacità di adattarmi. In Marocco ho allenato lo Chabab Mohammedia, un club storicamente importante che in quel momento era in Serie B. C’erano strutture al limite del calcio professionistico.
Mandatory Credit: Clive Brunskill/Allsport
Lei è nato a Castellanza: oggi è lontana?
Solo fisicamente. I miei genitori vivono ancora lì. La mia vita da bambino era nell’hinterland milanese. Quando posso prendo la macchina e in due ore e mezza sono a casa. Vivevo a venticinque minuti da Milano e a venticinque minuti da Milanello, in mezzo. Giocavo nel settore giovanile del Legnano. Sono stato scartato quattro volte di fila dall’Inter perché ero troppo piccolo. Mio padre era tifoso nerazzurro però non andava mai allo stadio a vedere la partita: all’epoca faceva il parrucchiere ed era obbligato a lavorare anche la domenica per pagare il mutuo. Io andavo a San Siro coi miei zii che erano tutti milanisti: così ho cominciato ad inzupparmi di rossonero.
È vero che ha preferito il Milan alla Juventus?
Ricordo quando giocavo col Como in Serie A. Ero in ritiro con la Nazionale Under 21. Un giorno il mio procuratore Oscar Damiani è venuto all’hotel e mi ha fatto vedere due contratti per me: uno della Juve e uno del Milan, entrambi con le stesse condizioni economiche. Scelsi il Milan perché ero un tifoso rossonero, ero di Milano. E la Juve prese Casiraghi. E scelsi bene visto tutto quello che i rossoneri hanno vinto.
Qual è stata la sua notte più bella col Milan?
Direi tutte quelle legate alla Champions League e ai tanti gol che ho segnato: la doppietta col Benfica, quella col Psv Eindhoven, poi la tripletta col Rosenborg. Ripenso spesso a quelle notti in Champions.
E la notte più brutta invece?
Ne ricordo una che però rimane bellissima per la storia del Milan: quella della finale col Barcellona che vincemmo 4-0. Purtroppo quella sera ero in panchina. In quell’edizione della Coppa dei Campioni ero stato protagonista e mi sarebbe piaciuto giocare quella partita. C’è un po’ di rammarico per non essere sceso in campo dal primo minuto. In Europa il mio percorso era stato positivo.