«Sì, bisogna riavvolgere un po’ il nastro. La famiglia prima di entrare a metà Anni 80 nell’Udinese aveva un’azienda che si occupava di utensili per la lavorazione del legno. Mi sono laureata negli Stati Uniti a Washington, in Business Administration, dove papà mi ha mandato a studiare. Poi ho iniziato la carriera nel commerciale e marketing nel Gruppo di famiglia, prima in Spagna a Barcellona e poi in Italia. La mia vocazione è sempre stata quel-la di espansione dei mercati esteri. Poi circa 12 anni fa il Gruppo è stato venduto alla Bosch e quindi si è aperta l’opportunità di collaborare nell’Udinese, all’inizio con qualche mio dubbioo, era un mondo che non conoscevo. Era il momento di sviluppo del progetto del nuovo stadio. Ho potuto così dare spazio alla vena creativa che ha permesso di portare nel mio calcio concetti moderni. Il football ha una grande forza sulla massa per cui un brand che vuole rafforzare il proprio marchio sposando questo sport realizza il suo desiderio. Nel settore da cui invece provenivo bisognava ideare campagne marketing per attirare l’attenzione del pubblico. Ma abbiamo cercato di andare oltre. Perché con l’introduzione dello stadio di proprietà abbiamo potuto usarlo come volano per far decollare le attività di marketing».
Cosa significa per l’Udinese essere l’unica società in Italia proprietaria dell’impianto oltre alla Juventus?
«Per noi è considerato quasi una divisione a sè. Lo stadio nell’immaginario col-lettivo ma anche nella gran parte delle dirigenze italiane viene inteso come una struttura dove a domeniche alterne si svolge la partita di calcio. Ma è una visione riduttiva. In realtà occorre proporlo per attività differenziate: le famiglie, le Academy, i meeting centre, le location per concerti. In Italia siamo molto, molto indietro anche perchè ci sono strutture vecchie per non parlare dei problemi legati alla burocrazia per costruirne di nuovi oppure ottenere le licenze. Troppi enti che si sovrappongono per cui ti perdi in attesa di avere mille permessi senza avere certezze sui tempi. E’ abbastanza triste sapere che ci sono fior fiori di investitori stranieri che poi si demoralizzano per l’ostruzionismo che incontrano. Da loro, Usa e Cina, lo Stato favorisce lo sviluppo immobiliare perché genera ricchezza e opportunità di lavoro. L’Italia sta limitando l’espansione del calcio, possiamo fare le leggi sugli stadi ma se poi non si affianca chi vuole investire allora è inutile. Noi stessi anco-ra adesso siamo in attesa da 5 anni per avere alcune licenze commerciali che non ci sono state concesse per sfruttare il potenziale dei 20 mila metri quadri che abbiamo alla Dacia Arena Siamo arrivati sin qui grazie al sindaco di allora che credette molto nel potenziale dello stadio».
In attesa di avere le licenze per l’utilizzo ludico-commerciale degli spazi e non solo sportivo, lo stadio ha iniziato a ospitare le vaccinazioni diventando Hub. Quanto ha riempito d’orgoglio la vostra famiglia?
«Noi l’abbiamo fatto 4 o 5 mesi fa in Inghilterra con il Watford, l’altro nostro club. In Italia ci eravamo proposti da subito ma non c’erano in vaccini. Vedere ora che tutto è diventato reatà nella Curva Nord è stata una grande emozione. Ora c’è un piccolo ospedale e conferma il fatto che il calcio è della comunità. Anche il nostro stadio, che è un bene privato, di fatto è pubblico nel senso che è studiato e creato in funzione dell’utilizzo che ne faranno poi le persone. Gli stadi devono vivere per la gente 365 giorni all’anno come veri e propri incubatori di idee».
Qualche altro esempio di presente rivolto al futuro abbinato allo stadio?
«Uno su tutti direi gli Esports. Si sta parlando di realiz-zare nella nostra Dacia Arena un’area per i ragazzi innamorati di questa nuova passione in modo che possano condividerla in un ambiente sano e di qualità, dove possano socializzare. La Club House è ormai una eccellenza per gli sponsor che utilizzano tempo e spazio per incontrarsi. Venire allo stadio non è solo vedersi la partita per i nostri im-prenditori ma anche un’opportunità di meeting in un contesto che facilita. Abbiamo creato i B2BLabe che sono tavolini in cui ognuno parla 4 minuti con l’interlocutore e poi cambia soggetto tra tutti i partner dell’Udinese. Ormai il calcio non può più dare solo visibilità ma deve offrire altro. Abbiamo rapporti di durata media o lunga: la Renault è con noi da 11 anni, Vortice da 5. Tra l’altro con il Watford sto promuovendo sinergie in modo da contaminare gli interessi degli sponsor dei due club che hanno mercati di riferimento differenti. Del resto siamo l’unica famiglia europea proprietaria di due club di prima fascia. In Italia tra l’altro siamo stati i primi a sponsorizzare il nome dello stadio e altrettanto vorrò fare col Watford».
Qual è il prossimo gol che vuole segnare?
«La mia ambizione più grande ora è quella di trasformare la Dacia Arena in un Green Stadium ovvero uno stadio ecosostenibile al 100% e riscontro grande sensibilità da parte dei partner. Ovvio che la speranza è quella di riaprire il pri-ma possibile ai tifosi. Due mesi fa abbiamo fatto una prova e insieme a Infront e una azienda di tecnologia: l’esperimento con 700 persone è stata efficace. Ognuno indossava un badge che vibrava se la distanza con un altro soggetto era troppo ravvicinata, l’input finiva alla regia di controllo che a quel punto contattava lo steward che andava a sollecitare il cambio di posizione. Ora serve chiarezza su tempi e modi di riapertura e in questo senso serve snellezza nelle decisioni. Si faccia un cronoprogramma e si diano segnali positivi. Ce n’è bisogno».
Quanto la affascina l’incertezza del risultato che incombe all’inizio della stagione, in fi n dei conti il gusto sta proprio nell’incertezza…
«Questo non mi affascina per niente, io sono molto concreta nelle mie strategie per cui il punto di do-manda del campo non è così funzionale. Siamo reduci da circa 5 anni un po’ complicati dal punto di vista sportivo e sono stati invece commercialmente brillanti. A chi investe nell’Udinese io dico sempre che non bisogna sposarci sperando nei risultati. Non deve essere questa la motivazione principale. Ci deve essere un progetto. Noi rappresentiamo una realtà solida, la proprietà è in sella da oltre 25 anni, abbiamo uno stadio di proprietà e una capacità di scouting di alto profilo. Poi è ovvio che tutto è più facile se la squadra va bene e vince. Ma è importante anche l’atitudine dei giocatori, non è così importante se perdi ma come perdi. Ci deve essere sempre un’etica»
Lei è friulana ma buona parte del tempo lo passa all’estero. Cosa le manca dell’Italia quando è lontana da Udine?
«Sono 35 anni che non vivo stabilmente in Italia: prima negli Stati Uniti, poi 15 anni in Spagna, un periodo a Milano e quindi l’Inghilterra. Mi sento molto identificata nel carattere friulano: costanza nel lavoro e rispetto per tutti. Forse mi sento più aperta per l’esperienza all’estero che ho vissuto. Mi sento un po’ ambasciatrice dei valori friulani e mi fa un enorme piacere quando in un Paese straniero abbinano la mia città all’Udinese».
Che rapporto aveva con lo sport Magda bambina e poi ragazza?
«A calcio non ho mai giocato! Ho sempre prediletto sport individuali come la corsa, la bici e il nuoto anche per la mia voglia di essere indipendente e non legata a impegni che non posso determinare. Ho ca-pito sin da piccola l’importanza dello sport come veicolo per imparare le regole e il rispetto di queste. Forma moltissimo sotto l’aspetto anche caratteriale: offre anche un attenzione all’ordine. Mio papà non mi ha spinto più di tanto a fare sport ma è stato molto lungimirante dandomi molta fiducia: mi ha mandato a studiare negli Usa a 17 anni in un’epoca in cui a Udine nessuno andava. Mi ha aiutato a trovare gli strumenti per essere indipendente».
L’eco si sta spegnendo ma siamo reduci dal tentativo abortito della Superleague? Cosa ne pensa?
«Una cosa indegna. Il calcio è democratico, appartiene a tutti e pensare di creare un campionato di elite dove non si retrocede o non esistono promozioni lo trovo disgustoso. E mi dà molto fastidio perché era un sistema per coprire altri proble-mi: questi club molto indebitati, tra 5 o 6 anni riavreb-bero lo stesso problema, si entrerebbe in bolle pericolose. Troviamo delle rego-le diverse, con tetti salariali, le gestioni oculate devo-no valere anche per i grandi club. Complimenti al governo inglese, la leadership di un Paese la cogli quando sa smontare in due minuti una cosa palesemente sbagliata. L’Inghilterra ci ha dato una bella lezione: il calcio è dei tifosi, sono felice che sia andata a finire così»