Le rivelazioni di Marcel “Marco” Van Basten.
Simbolo del Milan, in maglia rossonera ha composto un eccezionale trio assieme ai connazionali Ruud Gullit e Frank Rijkaard, simbolo di numerosi successi della squadra allenata prima da Arrigo Sacchi, poi da Fabio Capello. Il tre volte “Pallone d’Oro” – 1988, 1989 e 1992 – è stato certamente tra i migliori calciatori della storia del calcio. 314 sono i gol messi a segno da Van Basten, di cui 90 con la sola maglia del Milan, indossata dal 1987 al 1995, club con i quale l’attaccante olandese ha dovuto interrompere anzitempo la sua carriera per via dei continui infortuni alla caviglia.
Un calvario iniziato nella stagione 1985-1986, durante la sua esperienza all’Ajax. “Il calcio perde il suo Leonardo da Vinci”, così Adriano Galliani salutò il “Cigno di Utrecht”, che si ritirò ufficialmente dal mondo del calcio il 17 agosto 1995 con una conferenza stampa organizzatagli dal Milan. Ma il suo addio al calcio giocato, quello su un terreno verde, era arrivato molto prima, precisamente il 26 maggio 1993 con la sua ultima partita, consumatasi nella sfortunatissima finale di Coppa dei Campioni – l’attuale Champions League – contro l’Olympique Marsiglia. A quattro minuti dalla fine, con i rossoneri sotto di 1-0, Fabio Capello lo richiamò in panchina, mandando in campo Eranio. L’olandese non mise mai più piede in campo.
In una lunga intervista al quotidiano spagnolo “El Pais”, Marco Van Basten ha raccontato i momenti più difficili della sua vita e della sua carriera, raccolti nella sua autobiografia pubblicata in Italia con il titolo “Fragile”.
“La mia vita era giocare a calcio. E all’improvviso, dopo un’operazione che sembrava semplice, dovetti ritirarmi. Non era solo molto difficile accettare che non avrei giocato, è stato difficile andare avanti con la mia vita. Non solo non potevo giocare, la mia caviglia non mi permetteva di camminare o fare nulla. Sono stati anni molto duri. Sono stato fortunato che un medico abbia avuto l’idea di bloccare la mia articolazione saldandomi le ossa. Non potevo più flettere la caviglia, né potevo correre di nuovo, ma ero in grado di iniziare una nuova vita senza dolore. Gioco a golf e anche a squash, il che mi rende felice. Il mio problema erano i cattivi dottori, che invece di capire la situazione e migliorarla, l’hanno peggiorata. Il mio peggior nemico non sono mai stati i calci subiti dai difensori avversari”.
CRUIJFF – “Cruijff sotto accusa? Da un lato voleva che vincessimo titoli. Dall’altro, i medici gli dissero che se avessi giocato la caviglia non mi avrebbe fatto male. Per Johan questo è stato sufficiente e mi ha detto che avrei dovuto giocare. È qui inizia la mia responsabilità: volevo giocare. Ho pensato che avrei dovuto insistere, visto che i dottori mi avevano assicurato che fosse tutto ok. Ma la verità è che mi faceva così male che non potevo giocare o allenarmi bene”.
SACCHI – “Era una persona molto gentile e anche un ottimo allenatore. Ma parlava sempre dell’organizzazione, soprattutto in modalità difensiva. Io avevo lavorato con Cruyff all’Ajax, dove affrontavamo le partite in un modo completamente diverso, simile al Barça di Guardiola: l’attenzione era sulla palla e sul recupero della stessa. Con Sacchi è stato il contrario: prima pensavamo a organizzarci per fare pressione sull’avversario che aveva la palla, poi ci occupavamo del resto. Penso che questo abbia dato all’Italia ottimi risultati, eravamo fantastici ma io venivo da un’altra scuola. Con Sacchi è diventato importante l’allenatore, ma sono i calciatori a fare la differenza. Oggi però parliamo solo di allenatori, come se loro facessero la differenza. Questo non è positivo. Gli allenatori sono diventati troppo importanti. I giocatori devono assumersi più responsabilità perché sono quelli che hanno più potere di influenzare le partite e le stagioni. Oggi, se una squadra gioca bene o male, attribuiamo meriti o demeriti all’allenatore. Il Liverpool è Klopp, il Real Madrid è Zidane, il Manchester City è Guardiola. Perché come allenatore ho fallito? Ho fatto quello che potevo ma non sono riuscito a fare la differenza come allenatore. È stato difficile per me mantenere il controllo, alla fine ho capito che questo lavoro non mi dava piacere. Fare l’allenatore è una cosa davvero complicata e devo confessare che non ho capito come essere decisivo da una panchina”.