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Cairo, ansia plusvalenze: ma Belotti lo hai perso tu!

Ben consapevoli della fine che solitamente fa chi vive sperando, specie in casa Toro, alla fine si spera sempre. Si spera perché l’alternativa è deprimersi, o disperarsi, o abdicare alla passione tifosa: esattamente la triade di alternative che si prospetta ai cuori granata senza più la forza di credere in una redenzione societaria. Non è questione di risultati, tornati perfino decorosi, seppur sempre e comunque adagiati nel sottovuoto delle ambizioni riposte: lo abbiamo detto e scritto mille volte, anzi di più. È questione del Torino che non è più Toro, al di là dei sussulti di gioco e d’orgoglio riportati sul campo da Juric. È questione di mediocrità d’intenti e di gestione assurta a status quo. È questione di promesse disattese per tanti di quegli anni che tra un po’ cadranno in prescrizione, forse il vero obiettivo di Cairo, anche solo per sfinimento nel rievocarle. È questione che a furia di sentir dire che «prima o poi» il Filadelfia riaprirà alla gente, che «presto» il Robaldo diventerà un centro sportivo, che «appena sarà possibile» la Primavera non sarà più costretta a giocare a Biella, che «siamo pronti» ad affrontare la faccenda stadio, o che magari per il duecentenario di Superga – tra un secolo e un quarto – il Museo Granata verrà spostato (come da statuto e, appunto, promesse) sul suolo dove il Grande Torino diventò storia d’Italia e orgoglio mondiale, ti viene addosso uno scoramento che manco la pandemia.

I fatti

È questione che vorresti almeno una volta non dico vedere dei fatti, segnali di svolta, indizi di controtendenza, ma sentire qualcosa di diverso, parole meno aride, sterili, fuffose. E invece. Padrone, presidente, amministratore unico, limitatore e freno a mano del Torino Fc da 16 anni e passa, Cairo persevera nel ripetere la solita litania di rassicurazioni, garanzie, scuse, minimizzando le voragini di passione e d’affetto, di senso d’appartenenza e di pubblico, dribblando questo e svicolando su quell’altro. Alla fine, trova sempre qualcuno – tra i suoi dipendenti o sodali, o tra chi si fa sedurre dalla sua maschera gioviale e dal suo potere ma non sa un tubo di Toro – disposto a vestire di una qualche credibilità un eloquio talmente stantio che si potrebbero scrivere anticipatamente le risposte in vece sua, sbagliando forse mezzo aggettivo.

Il caso Belotti

Concedendosi alla vetrina dell’intervista-bilancio di fine anno, vetrina da cui peraltro i tifosi distolgono lo sguardo per non farsi venire il nervoso, fra una considerazione narcotizzante e l’altra (tipo il «modello Atalanta» dopo il «modello Udinese»: sigh) Cairo è riuscito a ricondurre anche il caso Belotti nell’alveo della continuità più deprimente. Al fatto che non ci fossero prospettive di rinnovo del contratto in scadenza si erano già rassegnati anche i fedeli d’ordinanza, ma lo scarico ufficiale di responsabilità sul Gallo doveva ancora esplicitarsi. «Forse si aspettava che quattro anni fa lo cedessi al Milan dove voleva andare, ma non potevamo interrompere quel tipo di rapporto e armonia». Senonché, «ho capito che se un giocatore se ne vuole andare è meglio lasciarlo partire»; di qui, il riferimento a “cambiamenti nella testa” del capitano che favorirebbero «infortuni da stress». Insomma, l’unica plusvalenza cui aveva rinunciato – sperando di guadagnarci di più in un futuro che non c’è stato, chiaro, e non certo per colpa del Gallo – sarebbe imputabile a uno slancio di amore presidenziale, mentre il merito di avere trasformato in Belotti uno «pagato 8 milioni al Palermo» che però «non ci credeva più di tanto» andrebbe al lavoro svolto a suo tempo da Ventura. Quello cioè che a Cairo ha fatto guadagnare re paccate di soldi con la rivalutazione (e pronta vendita) dei vari Cerci, Immobile, Ogbonna, Darmian, Glik, Peres, Maksimovic e Zappacosta. Ed esattamente ciò che il presidente vuol tornare a fare per quanti saprà (ri) valorizzare Juric, già ben avviato su tale percorso di recupero del capitale tecnico depauperato da anni di errori sul mercato, in società e in panchina.

Le plusvalenze

Plusvalenze vere, oltre che lecite. L’intesa sbandierata con l’allenatore croato poggia soltanto su quelle basi. L’immediato riferimento a Bremer è scontato e nel contempo avvilente: «Presto rinnoveremo, ci sono tutte le condizioni. Poi, un domani, sarà libero di coltivare le proprie ambizioni, scegliendo magari una squadra che giochi la Champions». Come del resto aveva preannunciato in estate lo stesso brasiliano, consapevole che in questo Torino le ambizioni possano essere soltanto personali, occasionali, fideistiche, velleitarie. Le aveva pure Belotti, quelle ambizioni. Sognava di poterle coltivare in granata, però. La faccia bella e felice del Gallo quando trascinò il Toro in Europa la ricordiamo tutti: lì si sarebbe dovuto investire sul suo entusiasmo, sul suo granatismo. Costruendogli attorno una squadra degna di lui. Macché: un deserto di emozioni e aspirazioni, di progettualità e credibilità, più che di soldi. Quelli non mancano, a Cairo. Gli manca la volontà di spenderli (bene, per tempo, assumendo e ascoltando dirigenti competenti) per rilanciare davvero il Torino; Torino peraltro acquisito fallito a costo quasi zero e oggi comunque in forte attivo, per patrimonio tecnico e immagine, malgrado i recenti bilanci in rosso e le doglianze continue. «Se tieni un giocatore del genere devi creargli un gruppo di valore intorno, cosa mai riuscita». Nelle parole, oggi, di Daniele Fortunato, ci sta tutto il Toro che è stato e che non è più. Sognate l’Europa? Circolare, prego. Il Toro, per Cairo, è un’area di transito, un punto di passaggio e mai di approdo, un trampolino e mai un traguardo, un mezzo e mai un fine. Il Covid, ora, è solo una scusa. Un’altra. L’ennesima. La solita.


Fonte: http://www.tuttosport.com/rss/calcio/serie-a

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