Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, Cuba, 1923- Siena, 1985) fu scrittore visionario, combinatorio, popolare e aristocratico. Con la città di Torino ebbe un legame formidabile, è qui nel 1945 che si iscrive alla facoltà di Lettere, laureandosi sullo scrittore anglo-polacco Joseph Conrad. A Torino, si avvicina alla casa editrice Einaudi, che gli offre possibilità di intensi scambi intellettuali con Pavese e Vittorini. Nel 1951 è redattore, diventandone direttore nel 1955 e fino al 1983 lavorerà per la casa editrice torinese come consulente. Quel palazzo di corso Re Umberto, con entrata da via Biancamano, fu un po’ la sua casa. Amava molto Torino e aveva in simpatia la squadra granata. «Torino è una città che invita al rigore, alla linearità. Allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre la via alla follia». Pavese, l’amico scrittore che in certo senso è suo scopritore, definisce Calvino “scoiattolo della penna”, per il piacere di scrivere di varia umanità, ma lo sport è elemento luminoso in cui l’animo di Calvino giornalista si fa straripante. Lo scrittore sarà inviato dell’Unità a tre edizioni delle Olimpiadi, nel 1952, nel 1956 e nel 1960 a Roma. Egli sa che le Olimpiadi assumono alto valore simbolico e non rinuncia all’esercizio di fantasia; ciascuno dei suoi articoli risulta una tessitura di parole per dire altro, assegnando alla sfida sportiva dignità della disputa “come cavalieri ad una giostra”.
Calvino ebbe dilezione verso le discipline sportive in genere e rivolse attenzione costante al gioco del calcio, che definiva “alchimia bizzarra tra sfera, campo di gioco, terra e cielo, coi ventidue in pantaloncini a “dannarsi l’anima” e tirare pedate ad un pallone”. Le sue cronache sportive non sono cronache, ma brevi racconti di forte suggestione. Helsinki, città dei giochi del 1952, finisce per essere “altrove”, perché le città in Calvino si fanno “invisibili”, spazzate via da un vento miracoloso. Egli scrive: “(…) città che sa di pesce e di prato, cresciuta com’è in mezzo ai boschi e all’acqua”. Vi è poi l’assunzione di forte senso critico e di un disancorarsi dal concetto di imparzialità. Lo scrittore ligure, torinese di adozione, autore della trilogia de“I nostri antenati”, di “Marcovaldo” e de “Le città invisibili”, dell’intricatissimo “Il castello dai destini incrociati” e del magnifico “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, supera se stesso in una pagina giovanile, che qui vogliamo ricordare. Guardava le partite della nostra Nazionale come i fanciulli, rapito da naturale empatia, a digiuno di nozioni tattiche. Ecco allora un “pezzo” che è magia, dal titolo “Una partita che non ho visto”, paradosso straordinario e ineccepibile.
Il futuro romanziere, redattore de L’Unità, edizione piemontese, è incaricato di seguire l’incontro di calcio Italia-Inghilterra, del maggio del ’48, e non varca i cancelli dello stadio Comunale di Torino. Attratto da quanto succede intorno allo stadio, è incantato dalle voci, dai cori, dai canti sgraziati e immondi dei tifosi, dai colori delle bancarelle come per un mercatino di sagra. Scrive: “Io la partita l’ho vista di fuori. Certo, anch’io avrei potuto comprare un biglietto all’ultimo momento, quando gli sfortunati bagarini facevano di tutto per dar via all’ultimo momento le loro rimanenze, ma ho preferito gustarmi l’atmosfera e assaporare questa domenica di festa tanto diversa dalle altre”. Domenica particolare per Torino, coscienziosa e operosissima, travolta da insolita allegria, con gli appassionati paragonati a “signori ben vestiti che escono dalla messa della domenica dalla chiesa di San Carlo”, tifosi provenienti da ogni regione d’Italia già dal sabato, coi loro modi e i loro dialetti, ai tavolini dei bar fino a notte, quando gli strilloni annunciavano i titoli dei quotidiani. Il giovane Calvino scrisse che Torino si era fatta metropoli, fuori dalla sua atmosfera settecentesca, oltre compostezza e grigio dei grandi viali e dei selciati. “Su tutte le vie correva la voce di Carosio, anche quelli che facevano gli indifferenti finivano per fermarsi ai crocchi ad ogni bar. “È in rete! È entrata! Ha segnato!”. (…) Macché quell’arbitro, lo maledicemmo anche noi di fuori stringendo i pugni. Certo la sera fu triste…” La partita finì 4-0 a favore degli inglesi, Nicolò Carosio come a volte gli capitava, da magnifico cantore di sport, preso dalla foga aveva riscritto l’epica dell’incontro. A spiegare la nostra sconfitta nasce osservazione sorniona: “Alla sera i nostri si fanno notare nelle sale da ballo e nei tabarin per le sgargianti giacche sportive, per i calzettoni multicolori e per le giacche eleganti”. Chissà cosa scriverebbe oggi Calvino sul calcio “globalizzato”, ma quante volte a ciascuno di noi è venuta voglia dinnanzi a spettacoli poco edificanti, di una fuga o una sparizione o magari semplicemente voler andar via per riparare altrove, “riparare” la vita e i destini. Ecco, questo insegna Calvino, raccontando anche di sport, cioè che tutto quanto è attorno consegna l’emozione più autentica della scrittura come della vita, suggerendo con grazia quanto questo incida e decida la realtà.
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