TORINO – Qualcuno, tra chi aveva fantasticato a lungo sull’idea di una Juventus spettacolarmente vincitrice, sostenne all’epoca che non l’avevamo capito. O perlomeno non gli fu dato il tempo di farsi comprendere. Altri, convinti dell’attendibilità delle voci che filtravano dallo spogliatoio, non hanno mai dubitato: il progetto, che in avvio destava curiosità, non poteva decollare perché il feeling con i protagonisti sul campo è stato troppo spesso problematico. Ecco perché l’anno torinese di Maurizio Sarri venne derubricato come un’esperienza fisiologicamente destinata a durare poco. Tempo di portare a casa uno strano scudetto a fine luglio nel silenzio dello Stadium vuoto per la pandemia, che l’ex bancario con vent’anni di gavetta sulle spalle non ebbe remore a definire «non festeggiato» (difatti lui in campo non c’era, prima di ricomparire negli spogliatoi), tempo di perdere un paio di finali (che brutto il tonfo di Riyad in Supercoppa!) e di farsi cacciare agli ottavi di Champions dal Lione cui non parve vero di aver eliminato la Juve e poi via.
Sarri mai un’icona di juventinità
Esonero, senza pietà né rimpianti. Sarri domani, a bordo del bus laziale, nell’accostarsi alla Continassa rivedrà i pennoni dello Stadium e non si emozionerà. Non c’è ragione perché replichi il dito medio esibito ai tempi del ben noto Napoli che perse lo scudetto in un hotel fiorentino e chissà quale sarà l’accoglienza della gente intorno alle 19.30, quando il mezzo entrerà nell’impianto juventino. Ma quel dito medio fu immagine complicatissima da cancellare, difatti al tifoso bianconero il Comandante piacque sempre poco. Ma lui ci mise del suo. Dalle chiacchiere sull’outfit da indossare in panchina, per uno che in tuta trovava la massima comodità, a quel vizio della sigaretta fumante ostentata ad ogni occasione buona nonostante la polmonite, Sarri non è mai stato considerato un’icona di juventinità.
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