In Armenia è un eroe nazionale, ammirato da tutti. Ci si può trovare alla Cascata, la scalinata monumentale simbolo di Erevan situata al centro della Capitale e dalla cui vetta si può ammirare tutta la città, ma anche in qualsiasi storico monastero sparso per il Paese, e ogni abitante, sentendo pronunciare Henrikh Mkhitaryan, sorride con fierezza ed è pronto a svelarti un aneddoto che lo riguarda. In una nazione dove il judo o comunque le arti marziali, attirano maggiore interesse del pallone, il centrocampista nerazzurro è il calcio. «Io ho iniziato a tifare Inter da quando è arrivato Henrikh, non avevo dubbi che si sarebbe fatto valere a Milano», svela Armen, la guida che ci ha accompagnato in giro per il Paese. «Oltre ad essere un campione, è un grande uomo, che si interessa dei suoi connazionali, conflitti e piaghe del Paese inclusi», confida con voce emozionata una signora incrociata in prossimità della cattedrale di Echmiadzin (l’Armenia è stata la prima nazione a scegliere il cristianesimo come religione di Stato) e in riferimento alla guerra del Nagorno Karabakh (con Mkhitaryan che in passato ha ricevuto la medaglia NKR, un altissimo riconoscimento locale, per la sua vicinanza alle famiglie dei caduti). Un figlio d’arte resiliente, un acquisto a parametro zero che ha convinto tutti (le prestazioni del classe ’89 sono supportate dalla statistiche, col calciatore che corre una media di circa 10 km a partita e ha segnato il gol decisivo del momentaneo 2-1 contro l’Udinese, dopo quello della vittoria contro la Fiorentina o la rete che ha sbloccato il risultato contro il Viktoria Plzen). Dai primi calci al Pyunik, sino alla titolarità con l’Inter c’è una vita costellata da talento e sacrifi cio. Sin dall’infanzia Henrikh decise di voler provare a seguire le orme del padre Hamlet, ex calciatore dalla discreta carriera, morto prematuramente quando il figlio aveva appena sette anni. Il ragazzo ha nel dna sicuramente capacità rilevanti, ma grazie anche all’educazione familiare che lo fece concentrare pure sugli studi – Mkhitaryan si è laureato e parla sette differenti lingue – è riuscito a beneficiare dell’istruzione ricevuta. Tanto che si dice che la sua bravura con gli scacchi gli sia sempre servita persino sul terreno di gioco, con mosse e movimenti preparati a tavolino per affrontare i rivali.
Palleggio e tecnica, con alcuni insegnamenti che risalgono all’adolescenza, quando si trasferì in Brasile e mostrò a tutti, nella terra del calcio, come un armeno potesse competere con le promesse verdeoro (e incrociò Hernanes). Poi il rientro a casa, le soddisfazioni ucraine, gli elogi col Dortmund di Kloop. E ancora: dai fasti con lo United all’Arsenal, sino alla vittoria europea con la Roma (e la pace con Mou dopo un rapporto non ottimale a Manchester). Capace di conquistare sette supercoppe nazionali (due in Armenia, una con lo Shakhtar Donetsk, due in Germania, una in Inghilterra e una con l’Inter), ha alzato al cielo anche Europa e Conference League. Sognare la coppa dalle grandi orecchie è oggettivamente complicato, ma Henrikh ha già vinto sfide impossibili. Aram Hakobyan, ex compagno di nazionale, oggi allenatore delle giovanili dell’Urartu FC va oltre: «Mkhitaryan è una leggenda. L’Inter è un’ottima squadra, quindi possono trionfare in Champions». Un augurio che va di pari passo con le parole dal calciatore dopo il 3-1 all’Udinese: «Possiamo battere qualsiasi squadra, siamo l’Inter, una squadra fortissima. Abbiamo fatto vedere a tutto il mondo che non si scherza con noi».