BARCELLONA – Come in ogni favola che si rispetti, la relazione di Carlo Ancelotti con la massima competizione continentale è cominciata con una delusione. Cocentissima. Oltre la sconfitta in sé. Nel 1984, infatti, Carletto non solo la perse, ma fu anche costretto a rinunciare alla finale della Coppa dei Campioni vinta, poi, ai rigori dal Liverpool nella “sua” e contro la “sua” Roma. Dagli errori dal dischetto di Bruno Conti e Ciccio Graziani sono, però, passati 40 anni e, nel frattempo, la traiettoria sportiva dell’attuale tecnico del Real Madrid ha assunto contorni leggendari.
Ancelotti: “Non ci si abitua mai a vincere”
Fiabeschi, appunto. Soltanto la Casa Blanca, infatti, ha vinto più coppe dalle grandi orecchie di lui: 15 a 7. Secondo posto che Don Carlo “condivide” con Florentino Pérez (di cui ci occuperemo dopo) e con l’altra sua squadra del cuore, quel Milan alla cui leggenda ha contribuito anche lui con quattro Champions League, due conquistate in pantaloncini e maglietta agli ordini di Arrigo Sacchi e altrettante alzate al cielo in giacca e cravatta, soffrendo nell’area tecnica: “Abituato a vincere Champions? Beh, in realtà uno non si abitua mai a vincere – ha assicurato subito dopo il trionfo di Wembley contro il Borussia Dortmund – . E poi è stato difficile, molto di più di quanto avessi immaginato perché nel primo tempo siamo stati vagabondi e abbiamo sofferto tanto, mentre nella seconda frazione abbiamo giocato molto meglio. Queste, però, ora sono stupidaggini e quello che conta è che il sogno continua”.
Le sue impareggiabili statistiche si fondono e si confondono con la sua umiltà. Ed è proprio questa sua leggerezza (più che modestia) che gli ha permesso di conquistare il cuore del popolo merengue: “Se ero arrabbiato alla fine del primo tempo? No, non avevo bisogno di arrabbiarmi, bensì di chiarire un po’ le cose. Era ovvio che dovevamo modificare qualcosa e lo abbiamo fatto cambiando il sistema di gioco (passando dal 4-4-2 al 4-3-3 con Vinicius e Rodrygo sulle fasce e Bellingham centravanti, ndr). Ma non abbiamo perso mai la tranquillità. Non ho preso la decisione da solo, ne abbiamo parlato all’intervallo nello spogliatoio, i ragazzi erano d’accordo e lo abbiamo fatto. E le cose sono andate meglio”.
Sembra facile, ma a renderlo semplice è il suo atteggiamento, sempre costruttivo: “Li ho esortati a fare meglio, ma il merito è di tutti. Questo Real è una famiglia calcistica dove tutti lavorano e l’ambiente è sano. E lavorare in una famiglia è decisamente meglio che lavorare in fabbrica”. Tra i tanti record stabiliti in questi anni da Carletto, il fatto di essere l’allenatore con più Champions della storia (5, due in più di Bob Paisley, Zinedine Zidane e Pep Guardiola) e di essere uno dei pochi a essere riuscito a vincerla sia da calciatore sia da tecnico (soltanto Frank Rijkaard, Zizou e Pep sono stati in grado di fare altrettanto) lo rendono uno dei principali totem della più importante competizione per club a livello non solo europeo, ma mondiale. Questo, però, non vuol dire che sia già arrivato il momento di voltarsi indietro e godersi quanto fatto. Il contratto che lo lega al Real fino al 2026 lo obbliga a guardare avanti. E il primo a saperlo è proprio lui: “È così, tutti se lo aspettano”.
Il primato del capitano Perez
Tutti, è vero, ma soprattutto uno: Florentino Pérez, l’altra grande colonna del Grande Real a colori. Quello in bianco e nero, invece, ha scritto la storia di questo sport a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, sotto la guida visionaria di Santiago Bernabéu: “È stato un pioniere perché capì che la costruzione del migliore stadio del mondo e la concentrazione dei migliori calciatori era la formula perfetta per forgiare l’icona universale che è oggi il Real Madrid”, ha ammesso l’attuale numero uno blanco che, numeri in mano, la lezione di Bernabéu l’ha imparata a memoria, riuscendo non solo a emularlo, ma anche a superarlo. Come dicevamo, infatti, sono sette anche le sue Champions League, una in più del leggendario presidente che dà il nome al tempio madridista.
E, in realtà, anche per numero di titoli complessivi, il Doblete ha permesso a Pérez di operare il sorpasso, 35 a 33: “Aver creato una competizione è più importante che vincerla” ha tuttavia sottolineato, facendo capire quali altre ambizioni – oltre a quelle sportive ed economiche – lo abbiano spinto a lanciarsi nell’avventura Superlega. Subito dopo la rimonta grazie alla quale il Real Madrid ha ribaltato e eliminato, negli ultimi minuti, il Bayern Monaco in semifinale, Ancelotti ci aveva tenuto a correggere un giornalista che lo aveva definito il capitano di questa squadra: “Qui di capitano ce n’è uno solo e si chiama Florentino Pérez. Gli altri siamo tutti marinai. È stato lui a creare questa stupenda generazione di calciatori e la speranza, ora, è di poter conquistare un’altra Champions”. Correva il 9 maggio e Carletto si riferiva alla Quindicesima. Appena tre settimane più tardi, però, nel dopo partita di Wembley, Florentino pensava già alla prossima: “Questa vittoria è il punto di partenza verso la Sedicesima”. Perché le vele dell’ammiraglio Pérez esigono sempre il vento in poppa. Altro che capitano…