Il Toro, Cairo e Pianelli
Chissà sua moglie, brillante e schietta com’è, quando ha sentito quelle parole! «Infatti credevo che potesse scoppiare il finimondo! Ma Claudia mantenne la promessa e rimase in silenzio nonostante l’assurdità di quella tesi. Si morse la lingua. E la stessa cosa feci io. Mi limitai a rispondere quel: allora è meglio lasciare perdere tutto… Quindi lo salutammo e ce ne andammo. Poi, una volta all’aria aperta, dissi a Claudia: sappi che io non andrò mai a lavorare per lui… è evidente che gli darei fastidio… ce l’ha fatto capire… gli farei ombra… E Claudia, naturalmente, era della mia stessa idea. Poi rividi Cairo dopo parecchi mesi al Filadelfia, a una manifestazione pubblica. Con 10 mila tifosi sul prato, in mezzo ai ruderi del vecchio stadio. Il sogno di tutti era la costruzione di un nuovo centro sportivo. Cairo parlò al microfono da un palco montato apposta. Ma durante il suo discorso un continuo brusio di fondo si spandeva nell’aria… evidentemente ai tifosi qualcosa non tornava… Quindi toccò a me. E immediatamente calò un silenzio di tomba. Avevano tutti smesso di parlottare, quei 10 mila tifosi. Mi ascoltarono facendo subito un silenzio quasi irreale. Come se fossimo in chiesa! Tanto è vero che Claudia, dopo la manifestazione, mi disse ridendo: “Sembrava che i tifosi ascoltassero San Paolino del Toro! Invece, quando parlava Cairo…”. E quel silenzio per me, dopo il brusio della gente per lui, fu una bella soddisfazione: avevo ancora fresco nella memoria quell’incontro a Milano».
Domenica 1 dicembre: domani. Saranno 7.030 giorni di presidenza, per Cairo. Esattamente come Pianelli dal 1963 al 1982. Cairo raggiungerà nel calendario il grande Orfeo, finora il presidente più longevo nella storia del club granata. Detto questo, restano due presidenti, due Torino e due mondi assolutamente imparagonabili.
«Per come abbiamo imparato a conoscere Cairo, più che a raggiungere Pianelli ci terrà tanto soprattutto a superarlo, e poi restare presidente per molto altro tempo. Per poter dire: il più longevo sono assolutamente io, soltanto io… Realizzerà questo record cronologico, statistico, che però non vale nulla di fronte alla grandezza e alla gloria di Pianelli. E alla sua semina. Sarebbe una follia totale fare dei paragoni. Anche perché mi sembra che i tifosi per Cairo non esistano quasi, gli interessano poco i loro sentimenti: e direi che l’ha dimostrato in tutti questi anni, no?».
Anche secondo lei sta soltanto raccogliendo quanto ha seminato?
«Sì, certo. Il dato dei giorni di presidenza è solo è un fatto statistico, numerico. Da un lato c’è la gloria di Pianelli, dall’altro una calcolatrice per contare i giorni trascorsi… Che però non contano nulla. Conta invece il modo in cui sei riconosciuto dai tifosi, cosa pensano di te, e ciò che hai fatto e fai per portare il Toro in alto. Quella semina che dicevo prima, insomma. E Pianelli era tutto l’opposto: i sentimenti e il suo amore per il Toro venivano prima anche dei suoi soldi, venivano prima di tutto. Negli Anni 60 fece crescere il club e la squadra in modo meraviglioso, quindi si mise in testa di dare l’assalto anche allo scudetto. E difatti continuò nella crescita senza vendere più nessuno del nostro gruppo… i Pulici, i Sala, gli Zaccarelli e via dicendo… pur di arrivare ad alzare il tricolore. Per amore del Toro, da tifoso vero qual era, voleva ottenere a tutti i costi quel risultato, anche rimettendoci tanti soldi. Difatti realizzò un sogno insieme a noi, nel 1976. Dopo già le Coppe Italia vinte, oltretutto».
Pianelli presidente: dal 1963 al maggio 1982. E lei nel Toro: dal 1967 all’estate dell’82, quando passò all’Udinese. Avete condiviso quasi interamente quei 19 anni.
«Basti dire che mi regalò il cartellino del mio tesseramento prima di andarsene. Quando vendette il Torino aveva il cuore che piangeva, non solo gli occhi».
Pochi lo sanno, Paolo. La raccontiamo bene questa cosa del cartellino regalato?
«Allora cominciamo da un primo episodio, utile per comprendere chi fosse Pianelli e che rapporto avessimo: un rapporto come tra padre e figlio, e non per modo di dire. Torniamo indietro a quando avevo 17 anni: 1967-’68, giocavo nella Primavera, ma ero già nell’orbita della prima squadra. Difatti avrei esordito nella stagione successiva. Ebbene, un giorno, da ragazzotto quale ero, litigai male, ma proprio di brutto, in allenamento con un compagno. Commisi una stupidaggine. Inesperienza, un po’ di immaturità… E poi giurai a me stesso: basta, lascio il Toro e me ne torno a casa».
E poi?
«Più tardi mi passarono il presidente al telefono. Pianelli mi disse che voleva parlarmi, mi invitò a recarmi in sede. Ma io avevo l’animo sottosopra… Così lo ringraziai, ma gli risposi che ormai avevo deciso e che non volevo fargli perdere altro tempo con un incontro. Però il giorno dopo un dirigente mi disse che sarei comunque dovuto andare da Pianelli in sede, che non potevo esimermi già soltanto per un fatto di educazione… Giusto: e così, pur convinto di aver già preso la mia decisione, ci andai, come da appuntamento. Bussai, entrai nel suo ufficio e con mia enorme sorpresa scoprii che vicino a lui c’era mio papà. Mio papà Silvio venuto apposta da Roncello. Lo aveva mandato a prendere Pianelli dal suo autista per portarlo a Torino. Il presidente mi invitò a sedermi: era chiaro che si erano già parlati e messi d’accordo. A quel punto parlò mio papà: “Paolo, mettiamo subito in chiaro una cosa. A Roncello tuo padre sono io, ma qui a Torino tuo padre diventa il presidente Pianelli e a lui devi obbedire, quando sei qui”. Una cosa incredibile! Pensai: e adesso come faccio a dire no a entrambi, non solo a uno ma addirittura a due… papà? E così sono rimasto nel Toro e sono diventato quello che sono diventato».