Ciò che più spaventa il tifoso del Toro, pensando alla partita di domani, è che ancora una volta possano ripetersi gli stessi errori, visti e rivisti, quindi triti e ritriti, ingurgitati a piene mani in specie nelle ultime due stagioni, mai digeriti, fonte di rimpianti inenarrabili. Errori innanzi tutto strategici, di gestione della partita, a monte dei possibili sbagli individuali (i cosiddetti episodi: un assist decisivo sbagliato incredibilmente, un’occasione da gol sprecata per imprecisione nella mira o per limiti tecnici ricorrenti).
Il pari a Salerno
Per dire: 4 febbraio, il Torino contro la Salernitana, risultato finale 0 a 0. All’epoca i campani speravano ancora di invertire la rotta e di continuare a lottare per la salvezza. C’era ancora Pippo Inzaghi in panchina (sarebbe stato esonerato 7 giorni dopo: Liverani al suo posto, che peraltro sarebbe poi durato a Salerno soltanto per un mese abbondante, sino al 19 marzo). Un caso emblematico, quel pareggio senza gol, capace di riassumere concettualmente diversi altri insuccessi precedenti. E domani al cospetto dei granata si presenterà il Frosinone, terz’ultimo in classifica. Un’altra squadra con l’acqua alla gola, seppur non come poteva avere la Salernitana quando si presentò, vicina alla disperazione, di fronte ai giocatori di Juric per il calcio d’inizio. Inzaghi voleva a tutti i costi muovere la classifica: e ci riuscì, innanzi tutto studiando alla perfezione le caratteristiche generali del Toro, le attitudini, le abitudini, il tipo di gioco di Juric. Dalla sua, pure la possibilità di replicare altre partitacce del Torino potenzialmente assimilabili: compreso il match di andata a Frosinone, un altro 0 a 0. Oppure quel Torino-Verona del 2 ottobre, sempre e soltanto 0 a 0, anche in quel caso contro una squadra che era nei fondali della classifica. Per non parlare di Torino-Cagliari di inizio stagione, 21 agosto: 0 a 0 pure quella volta. E non solo perché Cairo non aveva ancora comprato un centravanti (sarebbe arrivato a fine mese: Zapata).
Primi tempi sterili
Evitiamo di elencare i flop della stagione precedente, tanto saremmo soltanto ripetitivi. Dove vogliamo arrivare? A questa considerazione: nelle partite fin qui rievocate, tre fili rossi si possono sostanzialmente distinguere. In sintesi, analizziamo dunque il caso di scuola contro la Salernitana. Punto primo: il Torino gettò sostanzialmente alle ortiche il primo tempo, badando in primo luogo a gestire la manovra offensiva senza scoprirsi, senza sbilanciamenti tattici. Lunghe geometrie avvolgenti per cercare di aprire varchi sulle fasce o sulla trequarti, ma a ritmi globalmente troppo bassi. Tanto fumo e poco arrosto? Esatto. Un tempo abbastanza buttato, insomma. A tutto vantaggio degli avversari, ovviamente. Una strategia ad alto coefficiente di autolesionismo, strada facendo. Con inevitabile fermento sugli spalti: scontentezza, noia, voglia decrescente di tifare. Ed era evitabile. Come? Maggior velocità nella circolazione della palla, negli interscambi, nelle corse, negli inserimenti. Maggior forcing nella doppia fase: pressing e baricentro alto, aggressione a forte intensità con o senza palla, partecipazione più compatta di quasi tutti i giocatori agli assalti.
La trappola dell’imbuto tattico
Punto secondo: la trappola dell’imbuto tattico. Nel secondo tempo, con l’ansia di prestazione e la stanchezza crescenti, e su tutto il peso del conto alla rovescia rispetto al fischio finale, la situazione fu destinata solo a peggiorare, per il Torino. Anche perché la squadra di Juric si infilò sempre più, mani e piedi, nell’imbuto disegnato dalla tattica difensivista degli avversari. Per il Toro un solo tiro in porta in 90 minuti, senza significativi cambi di ritmo e intensità nell’aggressività: basta ricordare questo dato, pescando nelle statistiche ufficiali di quella partita di inizio febbraio. Quasi il 70% di possesso palla: un primato inutile, senza fantasia, senza sbocchi. Marcature ferree, spazi bloccati. E sterilità offensiva cronica, per il Torino di Juric: soprattutto quando gioca al rallentatore. La solita solfa? Se Bellanova a destra o qualcuno sulla fascia sinistra non vanno via in velocità in dribbling, se sulla trequarti non si accendono Vlasic o i trequartisti, le principali geometrie offensive del Torino tendono a diventare asfittiche. Solitamente, la squadra di Juric gioca meglio quando si trova di fronte formazioni di simile livello o anche più forti, ma che lasciano di più giocare proprio perché cercano loro per prime, di giocare. Contro le piccole che si chiudono a riccio, invece, i granata tendono più che altro ad andare a sbatterci contro palla al piede. O a girare in tondo, perdendo tempo.
La prevedibilità delle sostituzioni
Punto terzo, l’ultimo da evidenziare: la prevedibilità delle sostituzioni, e talora anche la tempistica ritardata. Un altro aspetto comune, ripetitivo, nel Toro di Juric. Esce un esterno, entra un esterno. Esce un centrocampista o un attaccante, entra un centrocampista o un attaccante. Molto raramente Juric cambia modulo a gara in corso. E se lo fa, accade non prima del 70’. La prevedibilità si somma così ad altra prevedibilità. E poi finisce 0 a 0, tra i fischi di tifosi che erano entrati allo stadio convinti di vedere un Toro spumeggiante, garibaldino, ripetutamente teso al forcing offensivo. Non per forza vittorioso, ma almeno capace di dare tutto e di fare di tutto, per puntare ai 3 punti. Ci stiamo sbagliando, forse?