«Quartiere di Napoli dove sono nato?».
Certo.
«Tribunali. Ma dopo il terremoto tutta la famiglia si trasferì a Pomigliano».
Non ho dimenticato l’intervista che Di Natale concesse alle Iene nel marzo 2011. Gli autori del programma di Italia 1 ebbero la delicatezza di sottotitolare il napoletano stretto, lingua meravigliosa che dava corpo e un colore particolare alle risposte. Lui esordì così: «Mio fratello arriva in piazza Plebiscito, c’erano cinquecento, seicento persone che gridavano “Vogliamo il lavoro!, vogliamo il lavoro!”. Si avvicina uno e gli fa “domani te la senti di venire a lavorare?”. Uààà, e con tutta questa gente proprio a me lo chiedete?”».
La leggenda – che tanto leggenda non è – narra che Totò non amasse giocare contro il Napoli al San Paolo. Qualche trasferta in effetti la evitò. «Credo di averci giocato sette, otto volte. Sono tanto tifoso, e a Napoli c’erano i miei fratelli, mi dispiaceva… Ridendo e scherzando, gli ho segnato nove gol, sei in due partite. Perché non ho mai giocato nel Napoli? Perché non mi hanno voluto».
Te ne andasti che non avevi ancora 14 anni.
«Presi il treno per Empoli da solo. Ai tempi non ce la passavamo tanto bene. Mio padre carpentiere, quattro figli maschi e una femmina. Quando non andavo a scuola papà mi portava al cantiere con lui, ho fatto il muratore, a’ cardarella, portami il secchio e il pennello, mi faceva verniciare. Non era cosa. L’unico modo per uscire da lì era il calcio. Dopo un solo provino Silvano Bini mi aveva segnalato all’Empoli… Non fu facile, soprattutto all’inizio. Quattro mesi e scappai, tornai a Napoli. Mi mancava tutto. Furono Bini e Montella a convincermi a rientrare. E l’anno dopo proprio Vincenzo se ne andò a Genova. Noi ragazzi stavamo al primo piano dell’Istituto Calasanzio, lo stesso che oggi frequenta mia figlia. A Empoli mi sono stabilito».
E Udine?
«Salgo ogni quindici giorni, ho un sacco di attività. Immobiliare, un’azienda di caffè, Totò caffè, le scuole calcio. Udine è bellissima, una volta ho detto che a Udine ho portato il sole e c’è anche il mare a cinque minuti da casa mia».
Stavi per preferirle la Juve.
«Quando c’era Delneri, a Udine era tornato Guidolin. Un anno prima avevo rinnovato per altre quattro stagioni. Non mi andava di partire. Dissi al presidente Pozzo, per me un papà, con lui ho ancora un rapporto bellissimo: «Io qui resto per sempre, se proprio volete che vada alla Juve mi dovete cacciare».
Rimpianti?
«Nessuno».
Tuttavia, quando la sera della presentazione dell’Udinese in piazza, davanti a migliaia di tifosi (conducevo l’evento con Nina Senicar, o era Belén) ti obbligai a urlare che saresti rimasto, mi guardasti male.
«Una tua impressione». Ride. «Anche Conte mi voleva alla Juve.”Tu vai a mille, io vado piano, che ci vengo a fare”?».
Di padri acquisiti ne hai anche un altro.
«Fabrizio Corsi. Empoli mi ha dato tanto».
Segnasti centoventicinque gol in Serie A in meno di dieci anni.
«Duecentonove in tutto. Non sono pochi. Mi dispiace quando sento e leggo che quel tal giocatore è scarso, che quell’allenatore non è buono. Bastano due partite fatte bene e il giudizio si capovolge».
Ti sorprendi ancora?
«Mi disturba un po’. Dietro un gol o una vittoria c’è tanto lavoro. Io sono arrivato in A che non ero più un ragazzino, a ventisei anni, so io quanto ho dovuto sacrificarmi».
Duecentonove reti e non eri certamente un gigante.
«Uno e settantuno, settanta. Mi sono accorciato con l’età…». Ride. «Una domenica a Palermo Pasquale Marino mi mise al centro dell’attacco. Mo’ che faccio? E lui: “Muoviti e dai una mano alla squadra”. Io non mi muovevo, segnavo e davo una mano alla squadra, ma a modo mio. L’anno dopo Spalletti fece fare il centravanti, il falso nove, a Francesco».
Brevissime esperienze da allenatore e hai mollato.
«Definitivamente, ho le mie cose da curare. E sono tante e tutte a Udine. I ritiri, la settimana impegnata con gli allenamenti… no, basta: ho bisogno di stare tranquillo. Non mi va. Diciotto anni sui campi sono più che sufficienti».
Un allenatore ha inciso più degli altri, questo lo so.
«Baldini, Silvio. Mandò via i vecchi e fece giocare i giovani. Io, Rocchi, Marchionni, Bresciani. Con lui siamo cresciuti».
Sei ancora irrimediabilmente un malato del Napoli .
«Certe cose non si perdono per strada. Quest’anno mi diverto di più, Conte è un fenomeno, sta facendo un capolavoro. Ha cambiato la testa alla squadra, le ha dato la mentalità vincente. Lo scudetto se lo gioca con l’Inter. Le ultime cinque partite saranno decisive, vince chi ne sbaglia di meno».
Con la Nazionale hai avuto un rapporto non proprio soddisfacente.
«Questo lo dici tu. Cinquanta partite e dodici gol negli anni in cui c’erano Del Piero, Totti, Inzaghi, Montella, Delvecchio. Alla prima convocazione mi ritrovai a tavola con Cannavaro, Maldini, Nesta, Gattuso, Pirlo».
Se ricordo bene, hai sempre detto che il compagno più forte che hai avuto è Sanchez.
«Alexis a diciassette anni era incredibile. Fuori da Udine Baggio, Del Piero, Totti, ma quando ho visto Maradona …».
Quando hai visto Maradona…
«Dal vivo, mi sono emozionato».
Sempre alle Iene descrivesti così l’Udinese: «Non si capisce niente, ci sono settemila lingue. Argentini, napoletani, turchi… L’allenatore scende, dà la formazione e dice “andate in campo, ci vediamo dopo”» . Da quando hai chiuso, nove anni fa, si sono aggiunti brasiliani, francesi, romeni, sloveni…
«I Pozzo anticipano tutti».
«Fatemi arrivare il pallone in mezzo all’area e abbracciatevi». Chi l’ha detto?
«E chi l’ha detto? Io».