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Donadoni esclusivo: “Questo Milan la mia sofferenza, ha perso lo stile”

Perché non alleni da oltre quattro anni e in Italia da sette?, perché il Milan non ti ha mai chiamato?, perché non sei stato in corsa per il Parma?, perché i presidenti non ti considerano più?, perché quando c’è un cambio di panchina leggo i nomi più improbabili e il tuo mai? Porti sfiga e non lo sapevamo? Sai bene che questo è un mondo di perversioni, pregiudizi, etichette e scaramanzie. Pensa soltanto al colore delle cravatte di Galliani, che è un po’ il nostro Picasso: ha avuto il periodo giallo e quello azzurro,,, 
«Calma».

Sono calmissimo: mi sono semplicemente fatto prendere dal por qué! por qué! por qué! di Mourinho. 
«L’ultima esperienza in Italia è stata a Bologna. Poi in Cina, allo Shenzhen. L’ho preso che stava retrocedendo e ci siamo salvati. La stagione successiva, dopo pochi mesi ho litigato col direttore sportivo, lo stesso che era stato al Tianjin Quanjian con Cannavaro. Sintesi del soggetto fatta da Fabio: «Un delinquente». So che è finito in galera perché ha combinato altri disastri, insomma l’hanno blindato… Alla festa dei 125 anni del Milan, a inizio dicembre, ho incontrato il dottor Galliani». 

Lo chiami ancora dottore? 
«E come dovrei chiamarlo? Mi ha chiesto del Monza. A Nesta non stava girando bene. Saltato Nesta…»

Ha preso Bocchetti. 
«Ho sperato che Monza fosse una possibilità. Mi è capitato spesso di pensare…».

A cosa?, a chi?
«A perché il Milan non cercasse anche me. Ci sono passati Leonardo, Inzaghi, Seedorf, Brocchi, Gattuso con l’altra gestione… Galliani diceva che era Berlusconi…».

E Berlusconi?
«Una volta gliel’ho anche domandato».

E lui?
«È Galliani che non ti vuole. Non sono mai entrato nelle scelte di persone alle quali sono legato, nonostante pensassi che sarebbe stata quella la mia destinazione ideale, la più naturale, quasi fisiologica. Negli ultimi anni si sono fatti vivi altri, anche il Cagliari un paio di volte, ma le trattative non si sono mai intavolate, a volte per scelta mia, altre per volontà dei club. Che hanno tutto il diritto di fare come vogliono».

Non sei portato al compromesso, questo si dice da sempre.
«Non lo so, penso di essere sufficientemente intelligente e in grado di capire le esigenze di una società. E so accettare i buoni consigli».

Avverto un pizzico di amarezza nelle tue parole.
«La provo. Ma vivo ugualmente bene. Vedo tanti colleghi che attraverso mille peripezie riescono a dare continuità al loro lavoro… La verità è che non posso essere o mostrarmi diverso da quello che sono».

E cosa sei, come sei?
«Nel modo di fare mi rivedo in Carlo (Ancelotti, nda), la stessa mentalità, cultura, educazione. Non sono un carabiniere. Lo ripetevo spesso ai ragazzi che allenavo: “non sono un carabiniere, vi osservo, controllo gli atteggiamenti e traggo le conclusioni”. Mi piace dare libertà ai collaboratori, so ascoltare, alla fine però sono io che mi occupo delle scelte. In panchina non mi agito, non sono un urlatore, non faccio casino. Ricordo che una volta Mazzone venne a vedermi a Ascoli. Allenavo il Livorno, ma quel giorno in panchina c’era il mio secondo, Bortolazzi, io mi ero appena dimesso. A un certo punto, dalla tribuna, la buonanima di Carletto gridò a Bortolazzi “Te devi agita’!, te devi muove!”».

Hai 61 anni, il tuo sta diventando un inaccettabile pensionamento anticipato.
«Ci sono situazioni che non posso governare, mi spiace di non poter lavorare con i giovani, di non provare il gusto di migliorarli, di farli crescere. Il sapore del risultato mi manca».

La tua stagione migliore al Parma, se ben ricordo.
«In condizioni assurde. La società aveva problemi serissimi e la Federcalcio ci chiese di portare a termine il campionato per evitare di falsarlo. Facemmo splendide cose, il primo anno raggiungemmo la qualificazione in Europa League. Il club era praticamente fallito, il periodo di Ghirardi».

Cassano si sfilò. Dissero che avevate litigato.
«Mai avuto problemi con Antonio, mai litigato con lui. Ebbe semmai da dire con Ghirardi. Scelse di non scendere in B, eravamo a un passo dal baratro, liberissimo di decidere della sua carriera, della sua vita».

Pensavo che nei giorni scorsi il Parma ti chiamasse.
«Ho sperato che lo facesse. A Parma sono legato, lì ho battezzato mia figlia. Ci sarei tornato di corsa. Hanno scelto Chivu, non mi pare che abbia mai allenato in serie A».

È così. Cherubini ha investito su un progetto a lungo termine.
«Parlare di progetti e programmi in Italia è fuori luogo ormai. Oggi conta il risultato immediato. Ovunque, a tutti i livelli. Se poi alleni Inter, Juve o Milan hai solo l’obbligo di vincere, ho letto cos’ha detto Conte, sto con lui, capisco che è la scoperta dell’acqua calda. Tuttavia da noi, dove dominano le proprietà straniere, c’è qualcuno che prova a fare le cose giuste e ha ancora un briciolo di capacità. L’Atalanta ad esempio. Anche lì c’è la presenza americana, ma ci sono dirigenti abili. La competenza oggi è il petrolio. Mi fa rabbia pensare che ci siamo ridotti così, e non mi riferisco solo al calcio. Il giudizio lo estendo al Paese».

Il Milan oggi è una combinazione di nervi, fegati e manager.
«Ero in tribuna l’altra sera, ho sofferto. Fatico a riconoscere il Milan. Mi procura sofferenza, non c’è più quello stile e non penso soltanto al campo».

Sei rimasto molto legato a Berlusconi e Galliani.
«Berlusconi con me fu eccezionale, ogni tanto lo sentivo ancora. Sette giorni prima della sua morte chiamai il San Raffaele, mi rispose la segretaria, le chiesi di riferire che l’avevo cercato per un saluto. Il giorno dopo telefonò lui, la voce stanca “Oh Roberto”, disse, “mi fa piacere che ti ricordi del tuo presidente”. Un groppo in gola, ero a un passo dalle lacrime. Ancora oggi, se ci penso, mi vengono i brividi. È un ricordo che conserverò. Berlusconi ha sempre avuto attenzioni per le persone con le quali ha lavorato».

Credi davvero che Sacchi voglia tornare al calcio a 78 anni?
«Sono molto affezionato ad Arrigo, giorni fa l’ho chiamato. L’operazione al cuore è stata pesante e lui ha bisogno di affetto, l’affetto della sua gente e del calcio, è pieno di umanità».

Roberto, torneresti a lavorare anche all’estero?
«Certo, se il calcio non si ripresenterà, me ne farò una ragione».

Immagino che tu abbia una sala dei trofei piena zeppa di coppe e medaglie.
«Ho una vetrinetta con poche cose che non mostro. Non amo mettermi in mostra».

È il tuo limite, nella stagione dell’apparire.
«Quante volte me lo sono sentito ripetere. Perché dovrei cambiare? Una ragione, me ne basta una sola. E perché dovrei raccontarmi per come non sono?».

Fosti il primo italiano d’Arabia?
«Non mi prese il club, bensì il principe. Che pensavo fosse scapolo e invece aveva sposato la figlia del re. Vincemmo il campionato, andammo in finale nella King’s Cup».

Come si chiamava il principe?
«Noi lo chiamavamo Al».
Per non sbagliare.



Fonte: http://www.corrieredellosport.it/rss/calcio/serie-a


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