Il nocciolo della questione è che la giustizia sportiva, così com’è, non è vera giustizia. Perché non ne ha le caratteristiche principali: dalla nomina dei giudici, dalle procedure alla terzietà dei giudici. Certo, sfrutta la sacrosanta autonomia dello sport, che deve essere difesa in tutti i modi, ma spesso l’ha sfruttata male e in modo politico e, soprattutto, la tipicità dello sport viene meno quando questo diventa business miliardario. Ce lo siamo detti mille volte: se si tratta di pesare le giornate di squalifica per un giocatore, l’autonomia deve essere totale e intoccabile. Ma quando si tratta di decidere sulla vita di una persona, privandola di un diritto fondamentale come quello del lavoro, per più anni, allora non può non esserci la possibilità di rivolgersi a quello che il diritto definisce il “giudice naturale”, cioè un giudice dello Stato, che offra tutte le garanzie del caso. Le offra a dirigenti come Andrea Agnelli e Maurizio Arrivabene, così come a società che fatturato centinaia di milioni di euro e che, per una decisione presa in fretta e furia con un processo sommario, possono rischiare di perderne altrettanti.
L’autonomia dello sport
L’autonomia dello sport è un concetto meraviglioso, ma si rifà a un’età nel quale lo sport era, appunto, sport, praticato da gentiluomini dei quali occupava il tempo libero. Oggi lo sport conserva lo spirito e il fascino sul campo, ma fuori dal campo è diventato un’industria che, nel nostro Paese, dà lavoro a centinaia di migliaia di persone; che nuove qualche punto percentuale del Pin e, soprattutto, che coinvolge emotivamente milioni di persone di qualsiasi età, ceto sociale, provenienza geografica. Una decisione della giustizia sportiva può spostare denaro, posti di lavoro e condizione emotiva di un numero enorme di individui. L’idea, quindi, che quella decisione possa essere presa senza un giusto processo, senza le più basilari garanzie, tagliate dal principio dall’aberrante principio della “rapidità di giudizio”, non cozza solo con le leggi dell’Unione, come ha spiegato l’avvocato generale della Corte di Giustizia Europea, ma contro il senso civile. Non sappiamo ancora cosa scriverà la Corte, quindi ogni commento sulle conclusioni dell’avvocato generale deve essere prudente, ma al di là dei mille distinguo e dell’ambiguità di certi passaggi, si percepisce bene, nelle venti pagine, che anche dalle istituzioni giuridiche europee arriverà una spinta forte verso la riforma, verso un cambiamento necessario e inevitabile.
Troppe disparità di trattamento
Se poi sarà uno «tsunami», come dice il deputato Mauro Berruto, che sta combattendo a livello politico, o se la montagna partorita una riforma topolino non lo sappiamo. Il timore è che passi molto tempo e altre sentenze potenzialmente sbagliate andranno a erodere la credibilità di un sistema che si fa forza da solo, perché chiuso su se stesso, e non si accorge che fuori da quella bolla nessuno ha più la fiducia di un tempo. Le troppe disparità di trattamento che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni da Calciopoli in poi hanno incrinato l’immagine di chi dovrebbe far valere la legge ugualmente per tutti e si ritrova puntualmente ad applicarla in modo arbitrario, a usarla come clava per punire avversari politici, a non riuscire a garantire l’equità per il semplice fatto che una Procura della Repubblica indaga e un’altra no.
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