Poche squadre hanno segnato la memoria degli appassionati di calcio quanto il Milan di Sacchi, e in particolare la versione che ha alzato la Coppa dei Campioni trent’anni fa. La vittoria in semifinale per 5-0 contro il Real Madrid va considerata come la partita della consapevolezza della forza di questo Milan; mentre la vittoria contro la Steaua, nella cornice di in un Camp Nou gremito di milanisti, è quella del trionfo. La vittoria di un gruppo dall’immenso talento plasmato dalla visionarietà tattica del suo allenatore. Una vittoria che apre un ciclo europeo che porterà il Milan a riscrivere la storia del calcio, trent’anni dopo l’ultima Coppa Campioni vinta con Nereo Rocco.
La vittoria per 4-0 contro la Steaua non è soltanto perentoria nel risultato, ma riempie gli occhi nella forma. Tutti i grandi talenti di quel Milan si sono espressi al meglio e i princìpi con cui Arrigo Sacchi aveva costruito la squadra hanno brillato sul palcoscenico più grande. Scrive Sacchi nel suo ultimo libro “La coppa degli immortali”, che descrive proprio la scalata di quella Coppa Campioni: «In fatto di fortuna io la penso come Seneca. Ritengo cioè che non esista. Esiste semmai un momento in cui il talento incontra una possibilità. Io credo di aver sfruttato bene le mie possibilità». Il 24 maggio del 1989 il talento del Milan aveva davanti la possibilità di aprire un ciclo e l’ha fatto nel migliori dei modi possibili.
Ricordando quella vittoria siamo portati a sminuirla per via dell’avversario. Per questo vale la pena innanzitutto tracciare un contesto. La Steaua, alla fine degli anni ‘80, era una delle grandi squadre d’Europa. Aveva vinto la Coppa dei Campioni nel 1986 e nel 1988 aveva raggiunto la semifinale. Arrivava a quella finale sulla scia del quinto titolo nazionale e di un’imbattibilità che durava da tre anni. Era una squadra esperta e di talento, che Bruno Pizzul in telecronaca descriveva come «tatticamente molto evoluta, che vanta nelle sue file alcuni elementi di notevole classe, a cominciare da Hagi, ma poi anche Lacatus e Piturca».
Il Milan era favorito alla luce del suo percorso nella competizione, ma le due squadre erano molto più vicine di quanto a noi possa sembrare. Insomma, non era una formalità battere la Steaua in finale dopo aver distrutto il Real Madrid in semifinale. C’è però una grande differenza: la Steaua era una grande squadra della sua epoca, il Milan invece sembra venire da un futuro che durante la partita ha creato davanti agli occhi degli avversari.
Al Camp Nou il Milan dimostra che rompere i paradigmi del calcio italiano non significa solo giocare un bel calcio, ma fare un calcio vincente, coniugare risultati a una proposta di gioco pensata soprattutto come la più efficace. Racconta Sacchi nel suo libro “Calcio Totale” che lesse uno stralcio dell’articolo prepartita di Gianni Brera a tutto lo spogliatoio: «Giochiamo contro i maestri del palleggio e del possesso palla, dobbiamo aspettarli e uccellarli in contropiede», chiedendo poi se quella fosse secondo loro la tattica giusta. Ad alzarsi per rispondere per primo fu Ruud Gullit: «No. Dobbiamo giocare come abbiamo sempre fatto. Li attacchiamo dal primo all’ultimo minuto, fin tanto che abbiamo energia».
Restringere il campo per controllare la partita
La vera differenza tra le due squadre, che appare ancora più evidente ai nostri occhi rivedendo la partita, è che il Milan ragiona attivamente anche senza palla, si muove come un un corpo unico, con meccanismi di scivolamento e di linea difensiva provati in allenamento fino allo sfinimento. La sera di Barcellona arrivano ad occhi chiusi. Come dice Sacchi: «Il pressing non si basa sulla corsa o sul lavoro duro. Si basa sul controllo dello spazio». Allora il modo migliore per praticarlo è restringere il più possibile il campo e di utilizzare quello che lui definisce un “pressing di squadra” invece che una pressione individuale.
Scrive Sacchi: «Volevo che la squadra difendesse aggredendo e non arretrando. Volevo che la squadra fosse padrona del gioco in casa e in trasferta. Era difficile far capire il nuovo modo di giocare, il movimento sincronizzato della squadra senza palla, avere undici giocatori con e senza palla sempre in posizione attiva. Avere una difesa attiva vuol dire che anche quando hanno la palla gli avversari tu sei padrone del gioco. Con tale pressione li obblighi a giocare a velocità, a ritmi e intensità tali per cui non essendo abituati vanno in difficoltà».
Per la finale non gioca Evani titolare, perché non ancora al meglio dopo un infortunio in allenamento prima della semifinale contro il Real Madrid; è convocato, ma sostituito nell’undici da Ancelotti, in campo anche contro il Real Madrid. Rijkaard gioca a centrocampo, mentre in difesa c’è quella che poi diventerà l’iconica linea a 4 che viene composta da Tassotti, Costacurta, Baresi e Maldini. Colombo e Donadoni completano il centrocampo, con Gullit e van Basten come coppia d’attacco.
Le posizioni in campo sono però più fluide di quanto possa sembrare, con combinazioni e movimenti in verticale che coinvolgono giocatori abituati quindi a scambiarsi di posizione e ad abbandonare la propria linea senza problemi se serve per accompagnare la manovra. Non esiste la visione dogmatica del 4-4-2 in cui ognuno occupa la sua porzione di campo facendo compiti prestabiliti.
Fonte: http://sport.sky.it/rss/sport_calcio_champions-league.xml