Dall’Africa al Torino
Se non avesse lasciato il Congo forse non sarebbe mai diventato un calciatore. Al piccolo Gaby Mudingayi bastava poco per sorridere: un pomeriggio assolato nel cuore dell’Africa in compagnia dei suoi cugini, tra biglie e piccole gioie, bastava per essere felice. La povertà e la mancanza di prospettive lo hanno spinto a mettere i giocattoli in una valigia. Necessario partire e cercare la fortuna altrove, ma non nel calcio. Gaby non ci aveva mai giocato da piccolo. Anzi, avrebbe potuto infilarsi i guantoni e salire su un ring, quando suo padre lo ha spinto a praticare uno sport. Mudingayi ha scoperto il calcio senza cercarlo. davvero. Dopo il Belgio è arrivato a Torino: così è iniziata la sua storia d’amore con l’Italia. Roma, Bologna e Milano. Fino a Formia, dove progetta la sua seconda vita.
Gaby, che cosa fa oggi nella sua seconda vita?
Adesso sto cercando di rientrare nel mondo del calcio partendo dal Belgio. Sto lavorando con qualche ex giocatore belga: insieme stiamo aprendo una società per fare i procuratori. Tutto il mondo guarda al calcio belga: ci sono talenti e tanti giovani molto interessanti. Noi con la nostra esperienza cerchiamo di aiutare questi giovani a 360 gradi.Vorrei fare il procuratore e sto studiando come fare.
Dopo aver smesso, lei si è dedicato a qualcosa che non riguardasse il calcio?
Sono stato molto coi miei figli e ho aperto un B&B e un pub. Un luogo di ritrovo per tanti giovani al mare. L’ho fatto a Formia dove vivo. Il pub è una cosa più estiva rispetto al B&B. Mi sono preso del tempo per decidere che cosa potessi fare da grande. Pub e B&B sono stati più per divertimento.
Lei è arrivato in Italia nel 2004: è diventata casa sua?
Sì, non ci sono nato ma vivo qui da 16 anni. Fa parte della mia vita e poi i miei figli sono italiani a tutti gli effetti. L’Italia è la mia terza casa essendo io un congolese cresciuto anche in Belgio.
Lei è nato a Kinshasa: per quanto tempo ha vissuto in Congo? Come è stato crescere in Africa?
Io sono stato in Congo fino all’età di 8 anni. Ho un bellissimo ricordo della mia infanzia. Vivevo coi miei cugini e i miei zii. Eravamo una grande famiglia ed eravamo felici anche con poco: in Africa la situazione non è sempre delle migliori… Non avevo niente, ma ricordo solo dei momenti belli.
Eravate una famiglia povera?
Sì, è sempre stato così. Ti rendi conto di essere povero quando magari mangi un giorno sì e un giorno no o quando magari il cibo non basta per tutti. Non avere i soldi per comprare una macchina non significa essere poveri. La cosa indispensabile è il cibo: solo quando manca quello capisci di non avere niente.
Come è stato lasciare il Congo per il Belgio?
Mi sono spostato prima io con mia mamma, mio padre ci ha raggiunto dopo. Sapevo che bisognava lasciare l’Africa, anche se io in Congo ero molto felice. Siamo andati via per avere un futuro migliore anche a livello scolastico. Quando avevo 8 anni mi sono trasferito in Belgio, dove ci sono tanti congolesi. Io e mamma ci siamo trovati bene.
Lei sognava di giocare a calcio da bambino?
No, la mia storia è molto diversa da quella di molti miei colleghi. In Congo non avevo mai giocato a calcio e non lo guardavo nemmeno in televisione. Pensavo solo a stare coi miei cugini. Facevamo tanti giochi diversi: da piccoli ci sfidavamo con le biglie. Inventavamo tanti giochi. Ci divertivamo anche a nascondino per tutto il quartiere.
Lei ha cominciato a giocare a calcio in Belgio: come è nato tutto?
Ho iniziato quando avevo 14 anni. Mio padre voleva evitare che dopo la scuola e aver fatto i compiti passassi il tempo per strada con gli altri ragazzi: così mi ha spinto a fare sport per scaricarmi e non combinare guai in giro. Io ho accettato, però non sapevo che cosa fare. Un giorno gli ho detto che volevo fare boxe, ma a lui non piaceva come sport.
Chi l’ha portata allora su un campo da calcio per la prima volta?
I miei amici, quelli che non piacevano a mio padre. Un giorno mi hanno detto che c’era una scuola calcio: se ci fossimo andati saremmo potuti stare insieme. Mi è piaciuta l’idea e anche mio padre l’ha apprezzata. Vivevamo ad Etterbeek, a Bruxelles vicino alla sede della Comunità europea. Mi piaceva il calcio perché avevo scoperto che correre mi rendeva felice. La gente mi apprezzava. Dopo due mesi il presidente della squadra ci ha detto che non poteva tenerci tutti e sei perché anziché giocare a calcio facevamo casino. Però voleva che io rimanessi e mi ha detto che, se fossi rimasto, mi avrebbe pagato da mangiare dopo ogni allenamento e ogni partita. Allora ho accettato. Avevo 14 anni e giocavo in una squadra che era in Promozione.
Si aspettava qualcosa dal calcio?
No, niente, non lo prendevo così tanto sul serio. Pensavo che mi sarei dovuto trovare un lavoro. Sono passato all’Union Saint-Gilloise in Serie C, ma era una squadra semi professionistica .Quando mi ha preso il Gent che giocava in A, ho cominciato a vedere le cose diversamente, ma senza farmi troppe illusioni. Poi ho firmato il mio primo contratto da professionista e ho capito che mi pagavano tanto per giocare. Nessuno credeva che sarei potuto arrivare così in alto, io per primo. In quel momento ho pensato che il calcio sarebbe potuto essere il mio futuro.
La sua prima squadra italiana è stata il Torino: come l’hanno scelta?
Sono venuti a vedere una partita dell’Under 21 belga: il Torino voleva comprare un centrocampista della squadra avversaria, un lottatore. Quel giorno però io ho fatto una partita incredibile. Zaccarelli e Cravero si sono innamorati di me e hanno di prendermi. Tre settimane dopo sono stato convocato dalla Nazionale maggiore e loro sono tornati per vedere la nostra partita contro la Polonia. Mi voleva anche il Modena che era in Serie A. Il Toro invece era in B. Io conoscevo la storia granata e sapevo di Superga. La squadra era molto apprezzata all’estero. Per me era un onore il loro interesse nei miei confronti.
Come è stato il suo impatto col calcio italiano?
Sono rimasto stupito perché allora la Serie B era impressionante. Nel 2003-04 c’era il Genoa, poi c’era Luca Toni al Palermo. Negli stadi c’erano sempre 20 o 25 mila persone. Nel Toro c’erano Balzaretti, Comotto, Pinga. Non vedevo differenza tra la Serie B italiana e la A belga. Il mio anno e mezzo al Toro è stato bellissimo. I tifosi mi volevano tanto bene. Io sono arrivato nel gennaio 2004, quell’anno però non siamo riusciti ad andare in A subito.
Nel 2005 però la società è fallita…
L’anno dopo abbiamo vinto la finale playoff col Perugia e centrato la promozione in A. Però siamo stati sfortunati: un mese dopo quella festa abbiamo saputo che la società era fallita. Quell’estate mi ha acquistato la Lazio, dove sono stato per tre anni. È stato bellissimo. Nel 2007-08 ci siamo giocati la Champions: abbiamo pareggiato in casa contro il Real Madrid e abbiamo battuto il Werder Brema, in quel girone c’era anche l’Olympiakos. Purtroppo c’è mancato qualche punto per passare il turno.