Nel mito di Diego
Tutte le strade portano e riportano a Roma. Nella sua vita Abel Balbo ha messo la passione al primo posto: quella per sua moglie che è stata al suo fianco quando l’Italia e in particolare Udine hanno chiamato entrambi e poi quella per il pallone. Tutto è cominciato nel giugno 1966 a Empalme Villa Constitucion, un paesino nel sud dell’Argentina. Tutto prosegue oggi nella città eterna, dove l’ex attaccante figlio di un operaio metallurgico ha chiuso il cerchio vincendo lo scudetto nell’anno del Giubileo al fianco di Francesco Totti, qualche anno dopo aver realizzato un suo altro grande desiderio: giocare al fianco di Diego Armando Maradona. Balbo ce l’ha fatta col talento e col lavoro e non vuole cambiare strategia nella sua seconda vita, in cui il campo continua ad essere al centro di tutti i suoi pensieri.
Abel, che cosa sta facendo oggi nella sua vita?
Da quando ho smesso di giocare ho fatto un po’ di tutto sia dentro che fuori dal calcio. Ho allenato e ho venduto qualche giocatore. Poi mi sono dedicato alle mie cose personali: ho un’azienda agricola in Argentina, produciamo cereali, soia, mais. Io e mia moglie l’abbiamo comprata coi primi soldi all’inizio della nostra carriera: veniamo entrambi da una zona agricola quindi l’idea è nata così. Dopo aver smesso ho dedicato tempo ai miei figli. Negli ultimi 3-4 anni sono stato quasi sempre negli Stati Uniti perché due di loro vivevano lì e ho approfittato di quel periodo per insegnare ai ragazzi nelle scuole calcio.
Lei è cresciuto in un paesino argentino: come è stata la sua infanzia?
Molto bella e sana. Io provengo da una famiglia umile: mio padre era un operaio e lavorava in una fabbrica metallurgica. Non mi è mai mancato niente. Sono cresciuto insieme a un gruppo di ragazzi in cui io ero sempre il più piccolino: mi hanno aiutato a crescere e non mi hanno portato sulla brutta strada. All’epoca era tutto più sano di adesso. Andavo a scuola e giocavo a pallone nel campetto della chiesa con gli amici. Un signore del paesino aveva fondato una squadra. Facevamo tornei alla domenica: iniziavo a giocare al mattino e finivo la sera.
Quando ha deciso di fare il calciatore? Chi erano i suoi miti?
Sognavo di fare il calciatore da sempre. Il mio primo mito è stato Mario Kempes, poi Diego Armando Maradona appena è apparso nel grande calcio. Loro due sono stati i miei due riferimenti più importanti. Ho avuto la fortuna di giocare due Mondiali insieme a Diego, all’inizio non pensavo che ci sarei riuscito. Ho segnato un gol su un suo assist nello spareggio Mondiale nel ’93 in Australia nelle qualificazioni per Usa ’94.
Come vengono visti nel vostro Paese gli argentini che hanno fatto una carriera prettamente europea? È il caso di Lionel Messi…
A me è successo perché io ho giocato in Europa quasi per tutta la mia carriera. Ho giocato un anno nel Newell’s Old Boys, ho disputato un campionato col River Plate poi sono arrivato in Italia. A me e a tutti quelli che hanno fatto la loro carriera lontano dall’Argentina è capitata la stessa cosa: i tifosi riconoscono il tuo valore, ma non sono mai legati a te. C’è ammirazione, ma non c’è attaccamento nei confronti di chi gioca in Europa quando è il caso di difenderlo. A chi gioca in Argentina viene perdonata qualsiasi cosa, a chi viene da fuori invece non gli si perdona niente.
Maradona ha giocato per tanti anni in Europa, ma è un caso a parte…
Diego è l’idolo assoluto in Argentina: non c’è un altro come lui, può fare quello che vuole. Non è stato più in discussione dopo avere vinto il Mondiale 1986 coi due gol all’Inghilterra dopo un periodo molto sentito, in cui c’è stata la guerra delle Malvinas Argentinas. In Argentina Diego non si tocca.
De Laurentiis ha definito Maradona l’handicap del Napoli: che idea si è fatto lei?
Maradona è stata la fortuna del Napoli, non l’handicap perché è stato lui a far diventare il Napoli una grande squadra. Nessuno conosceva il Napoli ad alti livelli prima di Maradona. Il Napoli deve essergli grato perché il miglior giocatore della storia ha scelto di giocare lì anziché farlo in altre squadre più prestigiose con cui avrebbe vinto qualcosa in più. I napoletani lo sanno e glielo riconoscono, adorano Diego ed è giusto che sia così.
Nestor Sensi e Gabriel Omar Batistuta sono stati come fratelli per lei dal punto di vista calcistico?
Siamo cresciuti insieme. Io e Sensini abbiamo cominciato a giocare insieme dalle giovanili del Newell’s Old Boys quando avevamo 14 anni, poi abbiamo fatto una carriera quasi parallela: siamo andati in Nazionale insieme e abbiamo giocato tutti i Mondiali insieme, siamo stati compagni di squadra all’Udinese e al Parma. I nostri paesini distano 20 chilometri uno dall’altro. Con Gabriel è stato un po’ diverso perché lui è più piccolo di noi, però ci conoscevamo perché tutti i ragazzi delle giovanili si allenavano nello stesso posto. Io e Gabriel abbiamo costruito una bella amicizia: abbiamo condiviso tanti momenti in Nazionale. Sono legato a entrambi.
Come è stato il suo arrivo in Italia?
All’inizio è stato difficile. L’anno prima di andare all’Udinese avevo fatto le visite mediche col Verona e avevo firmato un contratto con loro, ma c’era la regola dei tre stranieri e sono andato in prestito al River Plate. Quando sono tornato il Verona non mi ha voluto e sono passato all’Udinese. Da un lato ero molto felice perché ero arrivato al top: il campionato italiano era quello più prestigioso del mondo negli Anni ’90, ci arrivavano in pochissimi, ogni squadra non poteva avere più di tre stranieri. Giocare in Serie A in quel periodo era una conferma del mio valore: andare a giocare in Italia era il massimo a cui un calciatore poteva aspirare. Dall’altro lato però erano tempi diversi da oggi: non conoscevo niente dell’Italia, ero arrivato giovane in un campionato molto competitivo e non ero preparato al 100% per quel tipo di calcio. Ci giocavano i calciatori migliori del mondo e quindi ho avuto un po’ di difficoltà a inserirmi.
Andare a Udine però le ha dato una mano…
Sì, ho avuto la fortuna di andare in una città molto tranquilla come Udine: io e mia moglie siamo arrivati da soli, ci eravamo appena sposati, lei aveva appena 18 anni. Questa esperienza ci ha aiutato a crescere come persone e come famiglia. Ho vissuto un po’ di tutto, anche un po’ di paura: era difficile, non c’era il telefono a casa, ogni tanto potevi andare a chiamare da un telefono pubblico con una scheda. Eravamo in un mondo sconosciuto per noi.
Come vede l’Udinese di oggi?
La famiglia Pozzo ha fatto un gran bel lavoro in tutti questi anni. Quando sono arrivato io, l’Udinese una squadra piccola, che provava a salvarsi ogni anno, una volta ci riusciva ma quella dopo no. Coi Pozzo l’Udinese è diventata una potenza del calcio, un po’ di stagioni fa ha giocato per qualificarsi alla Champions League. La società ha messo in piedi lo stadio nuovo e ha costruito infrastrutture solide tra le prime al mondo, ed è riuscita a restare sempre in Serie A costruendo squadre spesso competitive.