Capello e Champions
Una pompa di benzina, un paio di guanti e un colpo di fulmine. Le mani hanno avuto un ruolo chiave nella vita di Christian Panucci: da ragazzino se le è sporcate pur di mettersi in tasca 50mila lire a settimana e non pesare più sui suoi genitori, quando il calcio cominciava a diventare una cosa seria. Le mani di Walter Zenga erano custodite da quei guantoni che Panucci aveva sognato quando faceva il raccattapalle nella sua Savona, gli stessi che si è preso dopo averci giocato contro e segnato con la maglia rossonera nel suo primo derby di Milano. Poi sono arrivate le Champions League, le scuole di vita all’estero e a sorpresa anche un colpo di fulmine: a 28 anni Christian e una donna chiamata Roma si sono innamorati e l’ex difensore ha alzato le mani perché un amore così grande non lo aveva mai provato. Oggi Panucci si tiene stretto il pallone e sogna una panchina per continuare a fare quello che ama.
Christian, che momento sta vivendo nella sua carriera da allenatore?
Fare l’allenatore mi piace tanto, è stato Fabio Capello a dirmi che dovevo intraprendere questa carriera: ho iniziato con lui in Russia. Il mister mi ha sempre voluto nelle sue squadre quando giocavo ed è stato così anche dopo.
Perché Capello ha pensato che lei potesse allenare? Quali caratteristiche ha intravisto in lei?
Non lo so e non voglio dirlo io, dovrebbe essere lui a farlo. Penso di essere stato sempre un giocatore con personalità, con serietà professionale e anche con tanto carattere. Penso che mi abbia portato in Russia per questo motivo, sono stato insieme a lui due anni e mezzo. Poi ho cominciato a camminare da solo al Livorno, alla Ternana e in Albania.
Come è stata l’esperienza in Russia?
È un Paese molto diverso dall’Italia e molto bello. Lì ho fatto scuola sia con Fabio Capello che con Italo Galbiati il suo secondo storico: questa esperienza mi ha fatto capire tantissime cose. Ritengo Galbiati un fuoriclasse assoluto: mi ha spiegato un po’ il lavoro, certe dinamiche, gli allenamenti e altre cose. È stato importante crescere con entrambi.
Si aspettava che la sua avventura con l’Albania finisse meglio? Aveva ricevuto una bella accoglienza…
Quando sono arrivato io, la squadra era quarta nel girone di qualificazione al Mondiale 2018, alla fine siamo arrivati terzi. L’Albania è un Paese molto complicato. Se dopo il 2016 c’era una panchina difficile in Europa era proprio quella dell’Albania: arrivava dagli Europei giocati per la prima volta, accettare di allenarla era un mezzo suicidio perché difficilmente saresti riuscito a qualificarti. Nelle qualificazioni europee eravamo in quarta fila, arrivare terzi significava aver fatto un’impresa, secondi un miracolo. Però sono stato felice: è stata un’esperienza fantastica, ho avuto un rapporto eccezionale coi ragazzi. Il presidente della Federazione albanese ha rilasciato dichiarazioni brutte nei miei confronti, ma quando c’ero io ha fatto il presidente e non è intervenuto su niente. Mi ha lasciato lavorare.
Lei ha allenato il Livorno e la Ternana in Italia: sono state due esperienze complicate…
A Livorno abbiamo costruito con due soldi la squadra più giovane del campionato e sono stato mandato via quando eravamo quinti, dopo quattordici partite ho ripreso la squadra al penultimo posto e l’ho riportata su, ma sono stato rimandato via. È molto difficile lavorare con Spinelli, anche se devo ringraziarlo perché mi ha dato la possibilità di cominciare ad allenare da solo. Stavamo facendo un capolavoro quando siamo stati mandati via la prima volta.
Che tipo di calcio ha in mente come allenatore? Quali sono i suoi principi?
Sono gli stessi che mi hanno accompagnato quando giocavo: lavorare con serietà, con intensità, con professionalità e con molta chiarezza. Non ho un sistema di gioco predefinito, dipende dalle caratteristiche della mia squadra, cerco di metterle addosso il miglior cappotto possibile. A Livorno giocavo a 3 in difesa, a Terni ho iniziato col 4-3-3: dipende da quello che ho in mano. Da quando ho cominciato in Russia sono cambiato molto perché ho fatto esperienza.
Lei ha iniziato in un calcio completamente diverso da quello di oggi: come era il rapporto tra calciatori e allenatori all’epoca?
Io ho avuto la fortuna di giocare con grandi club: per un allenatore lavorare a quei livelli è facile perché ha tra le mani il prodotto massimale, i giocatori fanno sempre la giocata giusta, il movimento giusto. Un allenatore deve solo gestire. Quando cominci da Livorno e Ternana e vai in Albania allora devi lavorare tanto. In Albania non c’era mai tempo per farlo, con le nazionali va così. Poi se la squadra è di quarto livello tutto si complica. Sono orgoglioso del rapporto che ho creato coi giocatori in queste tre esperienze: ci sentiamo e mi chiedono consigli. È la cosa più bella.
Lei è partito dal basso: è vero che faceva il benzinaio da ragazzino in Liguria?
A 15 anni sono andato via di casa perché mamma e papà non arrivavano a fine mese e discutevano molto per questo. All’epoca vivevo a 40 km da dove mi allenavo, ma la squadra credeva in me e mi aveva preso a vivere nel convitto. Non volevo chiedere soldi ai miei genitori e allora andavo dal benzinaio a Genova Pegli: mi davano 50mila lire a settimana. Da quel momento in poi ho cominciato la trafila nel settore giovanile fino alla prima squadra. All’epoca ho imparato tante cose, anche ad avere rispetto dei soldi. Ho cercato di non dimenticarmi mai da dove sono partito.
Lei ha cominciato ad alti livelli col Genoa: che cosa ha rappresentato per lei?
Io sono ligure e sono molto riconoscente nei confronti di Claudio Onofri che mi ha cambiato ruolo e di Claudio Maselli che mi ha portato fino alla prima squadra, di tutte le persone del settore giovanile del Genoa e dell’allora presidente Spinelli che mi ha dato l’opportunità di arrivare nel grande calcio. Sono sono molto legato a Marassi e ai tifosi del Genoa: essendo ligure non potrebbe essere il contrario. Recentemente sono stato col mio ex compagno Nicola Caricola: mi ha detto che quando avevo 18 anni si intravedeva già la mia grande personalità. Non avevo paura e mi facevo dare sempre la palla.
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Lei è arrivato al Milan a 19 anni: come è stato l’impatto con questa nuova realtà?
All’epoca avevo cominciato anche a guadagnare qualche soldino… I senatori del Milan mi hanno fatto capire quale era la strada giusta perché erano grandissimi professionisti, lavoratori eccezionali. Avranno intravisto certe qualità in me e mi hanno aiutato tantissimo. Sono riconoscente a loro, a Berlusconi e a Galliani per la cultura del lavoro che mi hanno trasmesso e che mi sono portato per tutta la mia carriera: arrivare un’ora prima all’allenamento, andare a casa un’ora dopo, fare una vita sana e riposare. Quella squadra non tornerà mai più nella storia del calcio, quel Milan è stato una scuola di vita. Ariedo Braida mi portava a 19 anni alle mostre per farmi vedere i quadri e farmi crescere culturalmente. Berlusconi era un fuoriclasse assoluto insieme a Galliani e Braida: la triade del Milan era unica.
Lei ha giocato con Paolo Maldini e Zvonimir Boban: il Milan di oggi è in buone mani?
Io e Paolo abbiamo giocato insieme un Mondiale e siamo stati compagni di squadra per quattro anni al Milan. Sono due assoluti professionisti e grandi uomini. Il Milan è nelle mani di persone serie e questa è una cosa importante perché in Italia scarseggiano un po’. Il Milan non vive un grande momento dal punto di vista economico e la dirigenza sta cercando di gestire la situazione nel modo migliore. Per Boban e Maldini metto la mano sul fuoco.
Come giudica l’acquisto di Ibrahimovic?
Scegliendo l’usato sicuro la dirigenza è andata sul sicuro. Oggi Ibra fa qualche scatto in meno, ma ha dimostrato di saper posizionarsi e l’istinto lo porta dove arriva il pallone. I fuoriclasse sono fatti così e non tramontano mai.
Lei ha segnato il suo primo gol col Milan nel derby e Walter Zenga le ha regalato i suoi guanti…
Ne parliamo spesso con Walter quando ci vediamo. Zenga non mi aveva dato i suoi guanti a Savona: all’epoca facevo il raccattapalle, mi ero piazzato dietro la sua porta e glieli avevo chiesti, mi aveva detto che me li avrebbe dati alla fine. Poi c’è stata l’invasione dei tifosi, l’arbitro ha fischiato la fine così Zenga è scappato negli spogliatoi e io non ho avuto quei guanti, però al mio primo derby contro di lui gli ho fatto gol e me li ha dati. Questa è la bellezza della vita.
Lei ha giocato il derby di Milano anche con la maglia dell’Inter: che cosa ha provato?
Giustamente i milanisti non me l’hanno perdonato. Col Real Madrid avevo vinto tutto e volevo tornare a Milano, nel 1999 però i rossoneri non mi hanno cercato. Giocare nell’Inter è stata una bella esperienza, purtroppo ci sono stati alcuni problemi con Marcello Lippi che fanno parte della carriera di un giocatore e sono dovuto andare via, però io all’Inter sono stato molto bene.
Si meritava la convocazione nell’Italia di Lippi? Le è mancato vincere qualcosa con la Nazionale?
Il 2006 è stato uno degli anni più belli della mia carriera, ma avendo avuto problemi con Lippi giustamente il mister non mi ha preso in considerazione. Non c’è niente di male. Ormai faccio il suo stesso mestiere: se dovessi incontrarlo, un saluto e una chiacchierata si fanno sicuramente. Nella vita si guarda sempre avanti.
Lei ha vinto due Champions League: la prima col Milan, la seconda col Real. Che cosa serve per vincere queste competizioni?
Una società forte e un gruppo di giocatori forti: lo eravamo sia al Milan che al Real perché compravamo i calciatori più forti. Al Milan era previsto un premio per noi solo in caso di vittoria in Champions. Nel 1995 abbiamo perso la finale con l’Ajax e non abbiamo ricevuto nessun premio, oggi invece vengono premiati anche il passaggio della fase a gironi e piazzamenti dagli ottavi in poi. Quella squadra oggi vincerebbe la Champions con la sigaretta in bocca.
Come vede le italiane in Europa?
La Juve è davanti a tutte le altre, l’Inter farà cose importanti in Europa nei prossimi anni, le altre sono in ritardo. Siamo un Paese in difficoltà e le società fanno fatica a gestire i bilanci. Non tutti possono permettersi di spendere.
Da calciatore lei è andato spesso all’estero: quale è stata l’esperienza che ricorda con più piacere?
Sono state tutte positive. Quando ho iniziato la mia carriera a 18 anni parlavo l’italiano, oggi parlo anche spagnolo, francese e un po’ di inglese che vorrei perfezionare. Parlare quattro lingue è una cosa molto importante. Sono stato benissimo al Chelsea, sento ancora i miei ex compagni. A Monaco ho vissuto bene anche se sono stato solo 8 mesi perché poi Capello mi ha voluto alla Roma. Anche oggi preferisco andare ad allenare all’estero perché c’è più pazienza, c’è un altro tipo di cultura. Se c’è l’opportunità di lavorare in Italia io ci lavoro senza problemi.