Leggenda azzurra
Il cielo sopra Antonio è sempre stato azzurro. Era così alla fine degli Anni ’60, quando il ragazzino classe 1957 cresceva nel Cremonese dando una mano nell’azienda agricola di famiglia: l’esperienza che più di tutte le altre gli ha insegnato che cosa significa lavorare sodo ogni giorno, sacrificarsi e soprattutto dover pensare a lungo termine. Ha esordito col grigiorosso della sua Cremona sulle spalle, per un anno è stato nerazzurro come l’Atalanta e poi ha sposato il bianconero della Vecchia Signora del calcio, prima di chiudere col rossoblù del Bologna. Cabrini ha cambiato pelle calcisticamente parlando, ma dentro è rimasto lo stesso ed è stato sempre profondamente legato all’azzurro della Nazionale. L’11 giugno 1982 l’ex terzino ha conquistato il mondo con l’Italia, il 29 maggio 1985 l’Europa qualche ora dopo la strage dell’Heysel e nel dicembre dello stesso anno si è preso di nuovo il mondo vincendo la Coppa Intercontinentale con la Juve. Da allora ad oggi sono passati quasi 35 anni, Cabrini però ha ancora il pallone tra i piedi, mentre sotto i suoi occhi sfrecciano le leggende del calcio italiano.
Antonio, che momento sta vivendo della sua vita? Che cosa fa adesso?
Sono tranquillo, si corre sempre, ma fa parte della normalità per me. Al momento sono presidente coordinatore delle Legends, un nuovo ramo della Federazione. È un’esperienza importante, c’è anche un fine benefico legato a una ONLUS. È bello poter mettere a contatto le Legends con le nuove generazioni per fargli capire cosa vuol dire indossare la maglia azzurra ed essere un fautore della Nazionale in tutto il mondo.
Lei ha scelto di allenare ed è stato anche c.t. della Nazionale di calcio femminile: quali differenze ci sono con quello maschile? Il movimento crescerà ancora dopo il Mondiale?
Il calcio femminile è un altro tipo di sport rispetto a quello maschile, così come lo è la pallavolo femminile rispetto a quella maschile. Quando ho allenato io la Nazionale, le società professionistiche maschili non avevano inglobato quelle femminili. Il movimento crescerà ancora, ma non so quando arriverà il professionismo. Sarà un passo fondamentale per metterlo sullo stesso piano di quello maschile.
(Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images)
L’emergenza del Coronavirus ha sconvolto anche il calcio italiano: che idea si è fatto di questa situazione?
Si è tenuto conto di un virus che ha colpito e colpirà mezzo mondo. Si sono prese decisioni cercando di rispettare i tifosi, ma allo stesso tempo c’era la consapevolezza che ci sarebbero stati problemi qualora gli stadi fossero rimasti aperti. Forse si sarebbe dovuto giocare a porte chiuse fin dall’inizio per evitare tutti questi rinvii: io avrei fatto così. Così tutte le squadre sarebbero state fin da subito sullo stesso livello.
Pensa che le società coinvolte abbiano alzato troppi i toni di fronte a questa emergenza? Inter e Juve su tutti…
Alla base del discorso c’è un problema serio come il Coronavirus, penso che di fronte a questo tutto il resto vada in secondo piano.
Parlando un po’ della sua carriera, all’Atalanta lei è stato compagno di Antonio Percassi: che ricordo ha del presidente?
Giocavamo insieme nel reparto difensivo. Percassi era uno stopper molto arcigno, uno di quelli classici. Facevamo la marcatura ad uomo, Antonio aveva il compito di non far giocare l’avversario, gli stava sotto. Era una persona carina e piacevole. Come presidente è diventato ancora più bravo: ha creato un impero industriale nella zona di Bergamo ed è stato abile a portare avanti un certo tipo di discorso con l’Atalanta. Percassi ha saputo quali tasti toccare per renderla grande.
L’Atalanta può fare qualcosa di storico in Champions?
Magari! Io mi auguro che vada avanti il più possibile. L’Atalanta è un orgoglio italiano. Segna veramente tanto, anche se con questa squadra non puoi mai stare tranquillo perché è capace di tutto. Però l’Atalanta oggi diverte, ha un allenatore come Gian Piero Gasperini che la fa giocare bene e ha una società molto seria, una delle migliori nel settore giovanile e con un programma ben preciso.