C’è qualcosa di masochistico e molto di demagogico nell’opposizione alla ripartenza del calcio di che contraddistingue non soltanto i politici di ogni colore, adusi ad andare nel pallone ogniqualvolta parlano di ciò che non sanno. Essi blaterano, ma non conoscono, essendo ignoranti in materia, etimologicamente discettando di chi ignora determinate cose o non essendosene mai occupato o per non averne avuto notizia. Peggiori dei politici sono quelli che di calcio vivono, ma, obbedienti a meri interessi di parte e terrorizzati magari dall’incubo della retrocessione, non lesinano il fuoco amico contro Gabriele Gravina.
Il quale, tuttavia, nel bel mezzo della bufera scatenata dal Coronavirus tiene la barra dritta come la sua schiena. Domenica sera, il presidente della Federcalcio ha colto la palla al balzo lanciatagli da Fabio Fazio e, davanti a una platea di oltre 2 milioni di telespettatori, ha affermato: «Non sarò io il becchino del nostro calcio. Non ho mai preso in considerazione l’idea di chiudere la stagione. Sono in ballo 5 miliardi di euro e l’impatto negativo di uno stop definitivo sarebbe una catastrofe. Porto avanti l’idea di continuare. Spero che in giugno l’Italia possa vivere un momento di sollievo. Accoglierei con sollievo la decisione del Governo di non riprendere, poiché si può immaginare come mi senta, vivendo da settimane quasi isolato su questa posizione».
No, caro Gravina, lei non è isolato, avendo dalla sua parte la maggioranza dei club di Serie A e i giocatori (leggere il comunicato emesso ieri sera dall’Associazione presieduta da Damiano Tommasi, dove si afferma: «La volontà dei calciatori e delle calciatrici è, e sarà sempre, quella di tornare al più presto in campo con le più ampie garanzie di sicurezza per tutti gli addetti ai lavori… La volontà di tutti gli atleti e le atlete è di poter tornare a svolgere il proprio lavoro così come tante altre categorie professionali, senza apparire privilegiati o usufruire di corsie preferenziali sui controlli medico sanitari»).
No, caro Gravina, lei non è isolato perché è sempre stato coerente. Così come fa Tuttosport a ogni pié sospinto, lei sostiene l’irrinunciabile salvaguardia della salute quale condicio sine qua non per avviare la ripresa atletica e agonistica a porte chiuse: il protocollo medico-scientifico inviato al Governo dalla Figc è lì a ricordarlo. L’Azienda Calcio, che i moralisti un tanto al chilo vorrebbero chiusa sine die, costituisce l’1 per cento del Pil; versa ogni anno allo Stato circa un miliardo e 250 milioni di euro sotto la voce tasse, contributi e altre gabelle; genera un indotto di 8 miliardi di euro, a beneficio dell’intera piramide calcistica e dà lavoro a 300 mila persone, poichè i livelli occupazionali garantiti non sono soltanto quelli dei professionisti strapagati (nella sola Torino, fra dipendenti e collaboratori, la Juve dà lavoro a 827 persone). I numeri schiacciano le parole. La volontà di ripartire schiaccerà anche la paura del virus.