Miami, Bologna e rimpianti
Semplice in campo e fuori, libero di scegliere e di reinventarsi tutte le volte che la vita lo richiede. Oggi Massimo Marazzina ha 45 anni e vive in Florida quasi da tre: ha scelto Miami con la pancia, la stessa che nel 2006 gli ha fatto capire che il Bologna sarebbe stato il club giusto per vivere emozioni simili a quelle provate col Torino prima del fallimento, una parola che non appartiene al vocabolario dell’ex attaccante bravo a guardare sempre il bicchiere mezzo pieno. Marazzina è un uomo con i piedi per terra, ma quando sente la parola “Chievo” ricomincia a volare con la mente e rivive il miracolo. È stato l’allievo di Delneri, poi è diventato il maestro di Pellissier e oggi ricopre un ruolo simile nei confronti dei bambini di Miami che sognano un posto al sole nel mondo del calcio. Sono stati mesi molto duri ma il peggio sembra alle spalle per l’ex attaccante cresciuto a Pandino in provincia di Cremona, dove i suoi genitori sono costretti a stare ancora in casa per l’emergenza sanitaria. Marazzina pensa positivo e aspetta la sua prossima avventura.
Massimo, lei oggi vive negli Stati Uniti: come è la situazione lì?
Qui non è stato chiuso tutto. La libertà è la cosa più importante e non ce l’hanno mai tolta: siamo potuti uscire quando volevamo. Questa è stata la differenza principale rispetto all’Italia dove la gente ha trascorso tanto tempo in casa. I miei genitori abitano a Pandino in provincia di Cremona e sono bloccati da due mesi: fortunatamente loro stanno bene. Soffrono a stare in casa, ma è meglio lì che all’ospedale.
Sente spesso la sua famiglia?
Adesso ho un po’ allentato la presa. Ho mollato un po’ perché sentire notizie negative tutti il giorno fa stare male. È giusto informarsi e non prendere sottogamba la situazione, ma bisogna pensare positivo. I giornali ci hanno bombardato con le notizie di morti, bare e contagiati. Ad un certo punto mi sono detto: fermiamoci un attimo. La zona in cui vivono i miei genitori è stata tra quelle col numero più alto di contagi in Italia. Ero preoccupato per loro, ma stavano e stanno bene quindi sono tranquillo.
Come l’hanno trattata gli americani quando l’Italia è stata colpita dal Covid-19?
I numeri dei morti e dei contagiati che ci sono qui fanno spaventare, ma gli Stati Uniti sono più grandi dell’Italia e confrontare i dati è improponibile. All’inizio mi dicevano che era colpa mia, che avevo portato il virus. Quando hanno visto che i morti crescevano in Italia e che il virus si espandeva in tutto il mondo hanno iniziato a scherzare meno e si sono preoccupati. Io insegno calcio ai bambini e ho spiegato ai loro genitori che non avevo avuto contatti con persone che vivevano in Italia. Dieci giorni fa hanno riaperto i parchi e ho ricominciato ad allenare. La MLS è ferma, ma è l’ultimo dei problemi: il primo sport è il football, poi ci sono baseball e basket. Trump spinge affinché l’economia riparta: lo apprezzo molto da questo punto di vista. Vuole riaprire al più presto, speriamo di avere buone notizie.
Lei ha ricoperto un incarico in una squadra dilettantistica lo scorso anno: che esperienza è stata?
Sì, al Sarasota ed è durata fino allo scorso giugno-luglio. Il presidente ha fondato il club dal nulla, di calcio però capiva pochissimo e quindi l’ho aiutato sotto ogni punto di vista: da come si va in trasferta a come ci si veste e ci si allena. Mi sono occupato dell’organizzazione societaria a 360 gradi. La stagione è finita bene e mi sono divertito: mi allenavo coi ragazzi e avevo ricominciato a fare quello che mi piaceva.
Che cosa non ha funzionato allora?
Da Miami a Sarasota ci sono tre ore e mezza di viaggio perché si trova dall’altra parte della costa. Il presidente si fidava di me, mi ascoltava e mi sentivo gratificato. Scegliere i giocatori non era stato impegnativo: avevamo fatto i tryout per ultimi quindi mi sono dovuto arrangiare coi calciatori che erano stati scartati dagli altri. Ho fatto anche l’allenatore perché il responsabile della guida tecnica faceva fare ai ragazzi il contrario di quello che avrebbero dovuto fare: c’era tanta confusione, i giocatori pensavano che fossi l’allenatore. Ho chiarito la situazione col presidente, ho fatto due passi indietro e ho ricoperto il ruolo di supervisore. Dopo un anno il presidente ha iniziato a dire la sua su tutto e ci siamo lasciati, ma siamo rimasti in buoni rapporti. I ragazzi continuano a chiamarmi e forse lui si è pentito per come sono andate le cose.
Perché ha deciso di trasferirsi a Miami?
Gli Stati Uniti mi hanno sempre incuriosito per il loro modo di pensare. Sono un padre e ho pensato che trasferirmi qui fosse la scelta migliore per l’istruzione e il futuro dei miei figli. Al mio ultimo anno a Bologna non ero stato trattato benissimo, così ho deciso di cambiare vita. Mia moglie era d’accordo e siamo partiti: a novembre festeggeremo il nostro terzo anno a Miami. Sono tornato a Bologna per giocare la partita contro le leggende del Real Madrid: ho parlato con la società e anche con altre squadre. Vedremo che cosa ci riserverà il futuro.
Il Bologna le ha dato tanto in un momento importante: lei ha ricominciato tante volte nella sua carriera…
Sì, sono stato in molte squadre. Per scegliere una maglia dovevo sentire qualcosa a pelle. Per andare a Bologna mi ero tagliato lo stipendio. Non avevo mai dimenticato quello che avevo provato al Torino in Serie B: sapevo che cosa significava vincere il campionato con una squadra importante. Desideravo vivere a Bologna le stesse emozioni che avevo vissuto a Torino e alla fine ce l’ho fatta, anche se è finita come è finita.
Lei a Bologna aveva scelto il 41 come numero di maglia: aveva qualche significato in particolare?
Ogni volta che chiamavano quelli dello sponsor mi chiedevano che numero di scarpe portassi. Quando sono arrivato a Bologna l’11 ce lo aveva Claudio Bellucci, così ho scelto di mettermi sulle spalle il 41, il numero delle mie scarpe. Non è una cosa molto poetica: lo riconosco.
Lei ha giocato con Marco Di Vaio che oggi è un dirigente del Bologna: vi sentite?
Abbiamo un buon rapporto. Di Vaio mi ha chiamato per giocare col Bologna contro il Real delle leggende. Sono stato in sede con lui e con l’amministratore delegato Fenucci, ho visto il nuovo centro di allenamento. Abbiamo parlato di alcuni progetti. Mi piacerebbe lavorare per una società italiana magari a distanza come talent scout.
Lei è stato allenato da Mihajlovic al Bologna: com’è andata?
Non avevamo un buonissimo rapporto a livello personale, ma sono cose che possono capitare. Per ottenere risultati serve una buona squadra. Forse all’epoca Sinisa non aveva giocatori adatti al suo modulo e magari nemmeno lui non era quello di oggi. Il suo staff però era ottimo.
Nel febbraio 2003 lei è passato dal Chievo alla Roma dove è rimasto fino a fine stagione: che mesi sono stati?
Turbolenti. Non avrei mai voluto lasciare Verona: stavo benissimo, ero coccolato e amato. Sono andato a Roma perché credevo di poter fare il salto di qualità, ma quando sono arrivato c’era una gran baraonda. Le cose non sono andate bene un po’ per colpa mia e un po’ per via di quella situazione. Tutti quanti non vedevano l’ora che finisse l’anno per ricominciare: non c’erano più né stimoli né obiettivi da raggiungere.
Che differenze principali aveva riscontrato tra Roma e Verona?
A Roma ero circondato da campioni che si allenavano in un certo modo, io arrivavo da una squadra in cui lavorare in gruppo sulla tattica e sulla tecnica era indispensabile. Mi sono fatto male subito dopo il mio arrivo e non posso dire di aver fallito perché ho giocato poco. Quando arrivi in prestito devi dimostrare tante cose: io non ce l’ho fatta perché non ci sono state le condizioni giuste. La Roma non mi ha riscattato.
La Roma è il suo rimpianto principale?
No, il mio più grande rimpianto è non aver disputato la Serie A col Torino. Io e i miei compagni avevamo riportato in Serie A una squadra con mille problemi dopo aver vinto lo spareggio play-off: io avevo dato il sangue. Quando la società è fallita mi è caduto il mondo addosso.