La povertà, Zico, il Belgio
Il sorriso sempre, il pallone ogni giorno, il pollo a tavola solo nelle grandi occasioni. In Brasile Luis Oliveira da piccolo aveva poco o nulla: così ha imparato a rispettare le piccole cose e a lavorare sodo per guadagnarsi le più grandi. In Belgio ha conosciuto la neve e si è fatto conoscere al calcio che conta, a Cagliari ha ritrovato il sole e l’ambiente giusto per sbocciare. Le stagioni alla Fiorentina al fianco di Batistuta ed Edmundo sono state da sogno, con lo scudetto accarezzato nel 1998/1999. “Lulù” non è uno che getta la spugna. La sua carriera è un saliscendi come le coste della Sardegna, la sua seconda casa. Da un paio di anni il “Falco” è atterrato in Veneto. Una vita fatta di lavoro, calcio e nuovi sogni.
Luis, lei fa l’allenatore: che momento sta vivendo?
È un periodo molto difficile. Alla Juniores Nazionali Campodarsego ci stiamo allenando, ma a livello di competizioni abbiamo giocato solo due partite. Stiamo aspettando l’ok del Governo. Speriamo di ricominciare. Sono in Veneto da quasi due anni: sono arrivato qui con la mia ragazza Rosalba. Ho lasciato la Sardegna perché volevo trovare una sistemazione come allenatore dopo l’esperienza al Muravera. Qui c’è più spazio e ci sono più squadre in Serie C e B. Col mio patentino posso allenare anche all’estero: ho guidato per due anni a Malta la squadra di Gaucci.
Perché ha deciso di allenare?
Il calcio è la mia vita, senza calcio io sono un pesce fuor d’acqua. Tutti nella mia famiglia, dal bisnonno al nonno, da mio papà a mio zio e mia sorella, giocavano a pallone. Mio padre mi ha trasmesso la passione, una cosa bellissima. Non tutti riescono a fare quello che ho fatto io. Mio papà diceva che mio fratello era più forte di me però lui è stato sfortunato: si è rotto tibia e perone e ha smesso di giocare. A me è andata meglio. Poi avevo fatto tanta esperienza per la strada: giocare coi più grandi fa crescere in fretta.
Quando non fa calcio che cosa fa? Qual è il suo desiderio più grande?
Mi annoio! Io vivo per il calcio. Vorrei allenare una squadra in Serie A, ma sarà molto difficile, oppure in B. Spero che un giorno qualcuno mi dia la possibilità per fare il mio lavoro con tranquillità. Mi ispiro ad Allegri: abbiamo giocato insieme a Cagliari. Era timido. Parlava poco e in campo era lento, ma aveva i piedi buoni e calciava il pallone alla grande, aveva colpi importanti. Non pensavo che potesse diventare uno degli allenatori più importanti d’Europa, ma ce l’ha fatta. Lo apprezzo tantissimo.
Che cosa le ha dato la sua infanzia in Brasile? E la sua famiglia?
Provengo da una famiglia poverissima: non mi vergogno di dirlo. Noi mangiavamo una volta al giorno alla sera, la cosa importante era andare a letto con la pancia piena. Ci potevamo permettere il pollo solamente la domenica: non vedevamo l’ora che arrivasse quel giorno per mangiarlo, era come l’aragosta per noi. Questo mi ha insegnato a dare valore alle piccole cose. Dai miei genitori ho imparato a rispettare la gente. Oggi non sono inserito bene nel mondo del calcio perché vedo tante cose in maniera diversa dalla maggior parte delle persone: mancano rispetto e riconoscenza.
Lei aveva un mito da ragazzo?
Zico: era il numero uno, quando ha lasciato il Flamengo per andare all’Udinese i tifosi non l’hanno presa bene. Zico ha lasciato un vuoto immenso in Brasile, era un idolo per tutti noi, ci faceva sognare con le sue punizioni e coi suoi dribbling. Era veramente straordinario.
(Photo by Marcus Brandt/Bongarts/Getty Images)
Che cosa ricorda del suo addio al Brasile?
Mia mamma non voleva che lasciassi il Brasile per il Belgio. Lei voleva che andassi a scuola, una delle cose più importanti per noi dopo la Chiesa. A me non piaceva studiare, volevo il pallone. Un giorno è venuto a casa nostra il procuratore che voleva portarmi in Europa: ha dato a mio padre duemila dollari di caparra che allora valevano sei-sette volte il cruzeiro, la nostra moneta. Quando mia madre ha saputo che mio padre aveva firmato il permesso per farmi partire si è arrabbiata e hanno litigato per 20 giorni. Secondo mio padre, Dio ci stava dando la possibilità di cambiare la nostra vita. A pochi giorni dalla partenza mia madre si è convinta e ha firmato per farmi partire. Mio padre si è messo a correre con quel foglio tra le mani, sembrava un bambino di cinque anni. Era felice. Quando sono arrivato a Rio il mio procuratore mi ha detto di cambiare pantaloni e scarpe. Abbiamo comprato una giacca pesante, un paio di jeans e due stivali. Abbiamo dovuto fare anche il passaporto per partire.
Com’è stato il suo arrivo in Belgio invece?
Era il 29 novembre 1985, avevo 15 anni e mezzo: lo ricordo come se fossi oggi. A Parigi abbiamo preso il treno per il Belgio. Dal finestrino ho visto la neve per la prima volta in vita mia, era straordinario. Due giorni dopo il nostro arrivo, il mio procuratore è andato via e mi ha lasciato con un suo amico brasiliano che è stato importante per me: mi veniva a prendere, mi portava allo stadio e a mangiare a casa sua. Mi dovevo allenare, ma avevo piedi e mani ghiacciate e soffrivo tantissimo, facevo fatica anche a parlare. Nel centro sportivo dell’Anderlecht c’era un campo sintetico al coperto: quando faceva freddo, diventava la nostra gabbia per giocare. Ho cominciato a fare un quarto d’ora lì dentro e dieci minuti fuori, quando avevo freddo rientravo. Lo facevo al mattino, alla sera mi allenavo. Così mi sono abituato a quel clima.