Il giardiniere, Bologna, il 5 maggio dell’Inter
Mano nella mano, destinazione paradiso. Julio Cruz ha cominciato a sognare così, mentre suo padre lo portava al campo di allenamento sotto il sole d’Argentina. Al Banfield Cruz era per tutti “Il Giardiniere”, in Olanda è diventato un uomo tra sacrifici e gol. Poi ci sono stati il Bologna e l’Inter, uscita con le ossa rotte dal 5 maggio 2002. Proprio quella caduta inaspettata ha spinto Cruz a scegliere i nerazzurri. Obiettivo: provare a scrivere la storia che nessuno aveva saputo scrivere. Messi e Ibrahimovic sono stati compagni di battaglia, Mancini e Bielsa maestri di vita. Nel 2009 uno scherzo del destino ha visto Cruz battere l’Inter e il suo passato con la maglia della Lazio sulle spalle. Dopo il ritiro Julio è tornato in Argentina e ha vissuto mille vite, prima di trovare la strada giusta al fianco del figlio Juan Manuel.
Julio, lei ha smesso di giocare da una decina di anni: cosa ha fatto dopo il ritiro?
Ho lasciato l’Italia e sono tornato in Argentina. Mi sono goduto un po’ la vita. Al primo anno sono stato benissimo con la mia famiglia e i miei bambini. Al secondo ho fatto un po’ di politica: ho lavorato con l’ex presidente Mauricio Macri. Sono stato con loro quattro anni. Poi mi sono allontanato perché la politica non fa per me. Ho scelto di fare beneficenza. Da tre-quattro anni faccio il papà. Seguo mio figlio Juan Manuel: gioca nel Banfield, un anno prima della pandemia è diventato professionista. Sto aiutando lui ed altri ragazzi: voglio che facciano una bella carriera.
Lei ha una fazenda che si chiama “La Lorenita” come sua moglie: di che cosa si occupa?
Me ne sono occupato dopo aver smesso. Pensavo alle mucche. Era una bella cosa. Però se sei stato nel calcio per tanti anni, la cosa migliore è fare quello che hai sempre voluto. La fazenda rappresenta un momento della mia vita: ce l’ho ancora, ma non ci faccio caso. Poi io non sono fatto per la campagna.
Com’è nata la sua passione per il calcio da bambino?
Mio padre giocava nel Santiago del Estero, la stessa squadra in cui sono cresciuto io. Si trova in una delle province più antiche dell’Argentina, a mille e cento chilometri da Buenos Aires. Poi sono andato al Temperley, un club vicino Banfield. Mio padre non mi ha mai chiesto di fare il professionista. Lui ha giocato un paio di partite nell’Estudiantes di Santiago del Estero, ma un problema alla vista lo ha costretto a smettere.
Com’è nato il soprannome “El Jardinero”?
È nato quando ero negli Allievi del Banfield: un giorno mi ero messo a giocare col tagliaerba e qualche giornalista mi aveva visto. Alla mia prima partita ho fatto un gol molto pesante con cui abbiamo vinto 2-1 alla Bombonera contro il Boca. Tutti i giornalisti si chiedevano chi fossi. Volevano intervistarmi, ma non mi andava. Al lunedì un giornalista, che mi aveva visto giocare, mi ha battezzato “Il Giardiniere”, ma io non tagliavo davvero l’erba dello stadio del Banfield. La storia del mio soprannome è nata così.
Nel ’96 lei ha perso col River la Coppa Intercontinentale contro la Juve: cosa ricorda?
Ero molto giovane, avevo 20-21 anni. Era una partita molto sentita da parte nostra. La Juve era una squadra forte, aveva vinto la Champions e aveva grandi giocatori. C’è rammarico perché ci tenevamo tanto a quella partita. Volevamo portare la Coppa a Buenos Aires.
Nel ’97 lei è passato in Olanda: com’è nato il trasferimento al Feyenoord?
Tutti i giocatori che arrivano in Europa fanno fatica ad inserirsi subito. Gli allenamenti sono differenti rispetto al Sud America. Per me non è stato difficile adattarmi al calcio olandese. Ho fatto fatica con la lingua. Mi ha aiutato l’allenatore Leo Beenhakker: parlava spagnolo, francese, portoghese, inglese e tedesco. Per me è stato molto importante capire quello che voleva da me. Al secondo anno abbiamo vinto lo scudetto. Avevo scelto il Feyenoord per questo: il club non vinceva il campionato da 10-15 anni e lo voleva fortemente. Per me è stata una doppia gioia: ho imparato dagli olandesi e ho vinto Eredivisie e Supercoppa olandese.
Lei seguiva il calcio italiano da ragazzo in Argentina?
Sì, l’ho sempre seguito perché c’era Maradona. Alla fine degli Anni ’80 in Argentina tutti guardavamo con passione il Napoli di Diego.
Perché ha scelto il Bologna nel 2000?
Dopo il Feyenoord potevo andare in Inghilterra, ma volevo il calcio italiano così ho accettato l’offerta del Bologna. Sono stati importanti Oreste Cinquini e Francesco Gazzoni. Il presidente Giuseppe mi voleva e mi ha sostenuto quando facevo fatica. Mi voleva bene. I tifosi hanno avuto pazienza con me. Ho avuto qualche difficoltà nei primi mesi, ma quando Guidolin mi ha spiegato come muovermi ho iniziato a fare bene. In quel Bologna poi c’erano grandi giocatori come Beppe Signori e Tomas Locatelli.
Se le dico ‘Inter’ che cosa le viene in mente?
Quando ho saputo che l’Inter mi voleva, tutti mi dicevano di cercare un’altra squadra. Al Bologna avevo fatto bene e tante squadre erano interessate a me. Ho scelto l’Inter perché c’era Cuper. Il 5 maggio 2002 avevo visto Lazio-Inter: i nerazzurri avevano perso uno scudetto all’ultima giornata in maniera molto strana, non ci volevo credere. Volevo andare all’Inter per fare qualcosa di buono. Sentivo che vincere lì sarebbe stato speciale. Purtroppo dopo il mio arrivo Cuper è andato via, ma sapevo di essere nella squadra giusta. All’Inter mancava un po’ di fortuna. C’erano buoni giocatori che non vincevano niente da tanti anni.
Lei ha indossato la maglia numero 9 dell’Inter: era pesante?
Non ci ho mai pensato perché un giocatore sa cosa vuole e cosa può dare. Volevo giocare e ho cercato di sfruttare al massimo lo spazio che mi è stato dato. Ho provato a fare bene ogni volta che ho giocato.
C’erano tanti argentini all’Inter: si è sentito di nuovo a casa?
Sì, è vero. Però quando sono arrivato all’Inter parlavo già italiano e mi sono inserito subito. Ricordo con piacere Francesco Toldo: era una persona fantastica, abbiamo ancora un bel rapporto. Poi c’erano Figo e Mihajlovic. Era una bellissima squadra. Mancini ha fatto di tutto per cercare di vincere con l’Inter.
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