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Gigi Meroni, l’intervista al nipote: “Suono la libertà del mio grande zio”

A Los Angeles è mattina, qui in Italia sera perché il mondo è già andato oltre di 9 ore: eppure rispetto alla California è sempre da noi che gira più lentamente. Glielo diciamo e Luigi Meroni detto Gigi, dall’altro capo del telefono, risponde di sì, «è vero, è così». Gigi Meroni l’americano («però io dentro mi sento ancora italiano all’85%»), stesso nome e cognome, è il nipote di Gigi la Farfalla Granata: che oggi, se fosse ancora tra noi, avrebbe compiuto 80 anni. «Io sono del ‘70, ho 52 anni. La sua memoria è dentro di me nei racconti di mia nonna Rosa, sua mamma, e di mio padre Celestino, suo fratello. Guardo il cielo, penso a loro che non ci sono più e rivedo anche lo zio che non ho mai conosciuto. Ma che è ugualmente dentro di me, nel mio sangue. Mia zia Maria l’ho sentita poco fa, mi aveva chiamato per preannunciarmi la vostra telefonata. Anche lei mi ha raccontato tante cose di suo fratello Gigi, quando ero un ragazzino e vivevo ancora a Como. Ma in questi ultimi venti anni, dopo la morte di mio padre, è più difficile per tutti parlarne. I dolori si mescolano, si sommano».

Fino a contorcersi, a legare la lingua, rallentarla, mai però silenziando l’anima. Il vissuto. Il profondo che ti porti dentro, anche dall’altra parte del mondo. Da Como alla California. Come Gigi che da Como era andato a Genova e poi a Torino, per vivere tutto un mondo totalmente diverso. Ma viverlo alla sua maniera di calciatore artista. Che da ragazzo disegnava le cravatte e a vent’anni dipingeva quadri perché era nato così, con l’estro e l’arte sia tra le dita delle mani sia tra quelle dei piedi: quando prendeva il pallone, un dribbling dopo l’altro come arabeschi sul prato. E davvero volava. La Farfalla. Poi falciata da un’automobile, all’improvviso, a 24 anni. Maledetto romanziere delle nostre vite: lo chiamano destino, ma chissà cos’è e cosa significa. E perché.

L’Emmy e Scooby-Doo

«Sono un musicista, un compositore. E sotto tanti punti di vista suono la sua libertà, quella voglia di vivere di mio zio al di là della gabbia dei conformismi. Anche se sono nato dopo la sua morte», 15 ottobre del 1967, «lo sento vivo, sento vivi i suoi insegnamenti. Lezioni di vita valide ancor oggi, per me. Ed è bello, è motivo di grande orgoglio». Gigi Meroni è un musicista che, detto con terminologia terra terra, ha sfondato. E da parecchi anni ormai. Basti dire che nella sua brillante carriera ha già vinto un Emmy, l’Oscar della televisione. Compone musica soprattutto per cartoni animati, le serie tv che ha firmato sono ormai innumerevoli in un quarto di secolo. Quella di Scooby-Doo per la Warner gli ha donato la popolarità, la fama («60 episodi trasmessi dalle tv di tutto il mondo»), gli ha spalancato mille porte. Con il regista Marco Ponti ha poi dato vita a un sodalizio artistico che perdura da lustri, di molti film Meroni ha scritto le musiche, anche del recentissimo “La bella stagione”, il docufilm dedicato allo scudetto della Sampdoria. «Io, però, sono interista: come mio papà Celestino. Però, a parte l’Inter, per il Toro ho una predilezione, una simpatia speciale, lo potete immaginare. E visto che la prossima settimana da voi si giocherà il derby di Torino, sappiate che da Los Angeles farò il tifo anch’io per i granata». 

“Orgoglioso di portare il nome di zio”

«Questo nome, Luigi, questo cognome, Meroni, questo soprannome identico, Gigi, non mi pesano mai, anzi. Sono ali, per me. Lo sono state e lo saranno ancora. Sono meravigliosamente orgoglioso di indossare il nome di mio zio. Io sono anche cresciuto nel mito di uno zio campione artista, che però ha dovuto sopportare punizioni, privazioni, giudizi terribili, condanne dell’opinione pubblica, dei cosiddetti benpensanti dell’Italia ancora tanto bigotta di metà Anni 60. Solo perché era estroso, perché non si tagliava i capelli, perché dipingeva, perché andava in giro con una Balilla come auto, perché teneva i calzettoni giù in campo, perché non correva dietro ai facili soldi, perché era un calciatore beat, perché dentro di lui c’erano in nuce anche l’età della contestazione, il 68, la libertà dei costumi e del pensiero. E perché si era innamorato e conviveva con una donna che aveva dovuto sposarsi un altro, obbligata dalla famiglia, contro la sua volontà. E tutto ha pagato sulla sua pelle, tutto: la perdita della nazionale, le polemiche, le guerre che gli hanno scatenato contro tanti giornalisti famosi, tanti giornali importanti. Sono stati ali i suoi insegnamenti per me, questo ripeto. E in modi diversi anche io ho sperimentato sulla mia pelle certe analogie. Per cui sì, nella mia musica suono anche la sua libertà che mi hanno trasmesso nonna, papà e zia Maria. E ne vado fiero». E l’orgoglio tra gli spartiti è anche della moglie di Gigi, Simona, pure lei comasca, e dei loro figli, Greta di 15 anni, Tommaso di 13.  

“Artista dentro e fuori dal campo”

«Lui girava per Como con una gallina al guinzaglio, io con una Vespa 50 Special tutta rosa. E tanti mi guardavano male, strano. L’Italia provinciale è sempre la stessa, sotto tanti volti, anche oggi. Però è vero che nel mio sangue scorre quel filone artistico che era di mio zio. Mio padre invece no, era più… posato: ragioniere. Gigi era un artista nella pittura e sul prato, io nella composizione musicale, nel guizzo di una nota all’improvviso». Un dribbling tra gli spartiti: tutti i giorni, a un ritmo indefesso, perché «in America la competizione è imparagonabile e non puoi dormire sugli allori neanche un giorno. Vivo a Los Angeles dal ‘97, dopo aver frequentato il conservatorio a Boston ed essermi poi trasferito in California per suonare jazz. Partii giovanissimo da Como con la mia chitarra. Mi dissi: devo provare, buttarmi, seguire l’ispirazione, ciò che mi bolle dentro. E poi quel che sarà sarà».

Le chiacchiere con la nonna

E a 20 anni rivisse idealmente i salti nel buio del Gigi calciatore, giovane talento. «Nonna Rosa mi parlava di lui, ma poi si interrompeva sempre, la commozione era troppa. Anche papà e zia hanno sempre fatto tanta fatica. Troppo il dolore, troppo tremenda la morte, così giovane. Troppo tutto. E io ho compreso meglio, direi appieno, la forza morale e la tensione per la libertà di mio zio quando sono diventato adulto. Oggi conservo le sue cose… una maglia della Nazionale, altri cimeli… come oggetti viventi». Disse Meroni in un’intervista rilasciata tre mesi prima di morire: «Io son quel che sono perché non ho mai rinunciato ai miei principi morali, di me stesso sono contento, sono un tipo semplice, non ho mai fatto nulla che adesso non rifarei e non mi cambierei con nessun altro». Gli insegnamenti di una vita a 24 anni, nel 1967. Così come oggi, per i suoi 80 anni, che però non ci sono. Ma invece sì, sono anche dentro di noi, se li sappiamo ascoltare col cuore. Il fruscio delle ali. E l’orecchio. Il diapason della sensibilità. 


Fonte: http://www.tuttosport.com/rss/calcio/serie-a


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