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    Berardi, intervista esclusiva: “Il salto? Oggi sono pronto. Per il sì a un top club bisogna essere in tre”

    Sentita spesso. «La vita è piena di sorprese. A me ne ha riservate tante. Da piccolo andavo a dormire con un pallone tra le braccia, stringevo il pallone al posto del peluche. Sognavo di diventare calciatore e ci sono riuscito. Il castello, la Rossanese…». 

    E l’Emilia. «Mio fratello studiava all’Università di Modena, decisi di raggiungerlo. Conoscevamo uno della Finanza, un calabrese, che mi fece fare un provino alla Spal». 

    Bocciato. «Macché. Mi presero, ma non ce la facevo a stare su, non mi piaceva, troppo presto. Così dopo una settimana tornai in Calabria. Il Sassuolo è arrivato nel 2010 e adesso sono quindici anni in Emilia e altrettanti in Calabria». 

    Confesso di essere rimasto sorpreso dalla tua disinvoltura, il grande pubblico ti conosce poco da questo punto di vista, perché ti sei sempre un po’ nascosto. «Non ho mai amato i riflettori, mi piace far parlare il campo. Non ho agevolato le interviste». 

    E hai fatto male, credo. «Ho fatto quello che mi sentivo. Oggi sono maturato sotto tutti i punti di vista». 

    Ultimamente ho rivisto in campo il vero Berardi. «Non è stato facile. Rottura del tendine d’Achille dopo che ero appena rientrato da un intervento al menisco. Avevo rivisto la luce e sono riprecipitato nel buio totale. Le ho pensate tutte, per la prima volta ho temuto che fosse finita. Il professor Zaffagnini, a Bologna, mi ha aggiustato e dopo due mesi ho ricominciato a lottare. La famiglia mi ha aiutato parecchio. Sono rimasto fuori otto mesi. L’ultimo anno in B mi è servito, anche se – sono sincero – non ho fatto bene. Non ero al cento per cento. È stato utile per ritrovare il campo, la partita, la condizione». 

    Cosa ti è rimasto della Calabria? «Il sangue. L’istinto lo governo ormai, prima reagivo al fallo dei difensori, adesso o rido o la prendo male. Un miglioramento c’è stato, ed è sensibile». 

    Ne hai prese e ne prendi ancora tante, di botte, essendo uno dei pochi dribblatori del campionato. «Non ci casco più. So come affrontare i provocatori. Non è stato semplice adattarsi, ma ci sono riuscito». 

    I trattamenti più severi chi te li ha riservati? «La Roma di Mourinho, undici assatanati, in campo alimentavano il caos. Devo dire che un altro bel soggetto era Chiellini. Ti menava e poi ti ringraziava. Una marcatura esperta e fisica. Quand’eri a terra semidistrutto da lui, Giorgio era il primo a consolarti. Un martello, ma educato». Ride davvero di gusto. 

    Il Var rappresenta una tutela maggiore per gli attaccanti. «C’è più attenzione da parte di chi difende. La gomitata, il pugnetto tirato a tradimento vengono molto spesso individuati». 

    Ci sono allenatori che hanno segnato la tua carriera. Non è una domanda, è un’affermazione. «A Di Francesco devo tanto, ha avuto il coraggio di buttarmi nella mischia a diciassette anni. Grosso in questo calcio ci sta benissimo, è uno che si confronta, che ci ascolta. Ma mi sento tanto legato a De Zerbi. Con lui giocavamo col joystick. Maniacale, totalmente assorbito dal lavoro, poteva stare sul campo diciotto ore. Possesso stretto, a campo aperto, la tecnica con le sagome. Se sbagliavi un passaggio semplice e spedivi il pallone sul piede sbagliato del compagno, interrompeva l’allenamento. Insisteva fino a quando il pallone non arrivava al piede giusto. (Si ferma). Per noi si sarebbe buttato nel fuoco». 

    Non ho ancora toccato il tasto della Nazionale. «Riconquistarla da Sassuolo sarebbe magnifico». 

    Quattro anni fa c’eri anche tu in Inghilterra. «Mancini riuscì a unire il gruppo ed era piacevole stare insieme. Finita la partita tornavamo a Coverciano, alle quattro di notte la spaghettata aglio, olio e peperoncino. Il pensiero della vittoria non ci aveva sfiorato. Ci provammo e andò bene. Con un po’ di fortuna». 

    Confermo: ti compro. Almeno io.  LEGGI TUTTO

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