Orfeo Pianelli, già da tempo entrato nella dirigenza granata, diventò presidente del Torino il 20 febbraio del 1963. Quella sera, nella sede di via Prati, si riunirono 10 consiglieri del club. La riunione, cominciata alle 21, si protrasse sin quasi a mezzanotte. Al termine, la segreteria del club emise un comunicato: «Il consiglio direttivo dell’A.C. Torino (…) ha accettato le dimissioni del ragionier Angelo Filippone e ha eletto nuovo presidente, all’unanimità, il commendator Orfeo Pianelli». Era sull’orlo del fallimento da anni quel povero Toro del dopo Superga. Pianelli lo risanò, lo rilanciò, lo riportò ai vertici del calcio italiano e in un giorno di maggio del 1976 salì sul colle di Superga con i giocatori e migliaia di tifosi arrivando a guardare negli occhi il Grande Torino, guardando il cielo. Era la sera del 21 maggio 1982 quando Pianelli lasciò la lussuosa sede del Torino in corso Vittorio Emanuele II. Vide i cronisti sul marciapiede e scoppiò a piangere: «Sì, ho firmato, ho venduto. Non mi hanno lasciato neppure un’azione e potete pensare questo cosa voglia dire per me. Una ventina di anni nel Torino sono una vita, ma non c’erano altre vie d’uscita. Ho dovuto aspettare tre ore per poter firmare. Ora… però… vi saluto». Il più grande presidente granata dopo Ferruccio Novo non riuscì ad aggiungere altro. Singhiozzava. Esattamente quel giorno, il 21 maggio del 1982, Urbano Cairo compiva 25 anni. Il 2 settembre 2005, Cairo diventò il presidente del Torino. Oggi, (soltanto) nel calendario raggiunge Pianelli: stesso numero di giorni di presidenza, 7.030. E da domani sarà lui in solitudine il presidente più longevo della storia del Toro. Poi, martedì, il club compirà 118 anni di vita: un altro potente rintocco del tempo in questo trittico di date. In un giorno di inizio aprile del 1996 andammo a incontrare Pianelli nel suo “esilio” di Villefranche, nella sua abitazione a pochi chilometri da Nizza. Ci accolse la figlia Cristina, ci portò nella stanza dove i genitori attendevano seduti in poltrona. Su un tavolo vicino, un castello di medicine: erano già entrambi molto malati Orfeo e sua moglie Cecilia. Aveva 75 anni, Pianelli. Un tempo, da imprenditore fatto da sé, nato falegname, muratore, e poi cresciuto elettricista, vinse un mondo. Ma aveva l’effigie della sconfitta nel cuore, l’anziano presidente. Evocammo lo scudetto del ‘76, dopo un po’: «Vent’anni fa vissi la stagione più bella della mia presidenza. Oggi, invece, il presente è angosciante. Mi sembra di toccare con mano il senso di impotenza, di agonia che sta lacerando i tifosi granata. Quelli veri, intendo dire». No, non poteva parlare di Cairo! Però adesso sembra quasi così, vero? Ma ce l’aveva con Calleri, Pianelli: «L’unica cosa buona che ha fatto da presidente del Torino è stata evitare il fallimento». Parlava a fatica. La malinconia riempiva l’aria nella stanza. E la rabbia, quella rabbia che covava ormai da quasi 20 anni, nel corpo provato si trasformava solo in un filo di voce. «Sono sempre stato un tifoso. A differenza di quanto hanno fatto altri, non ho mai pensato al Toro per interesse. E dire che dopo la vittoria in campionato avrei davvero potuto badare ai fatti miei. Vendevo i migliori, recuperavo i soldi che avevo speso, me ne andavo da trionfatore e mi risparmiavo certe amarezze. Invece no. In 19 anni non ho mai svenduto nessuno. Il mio obiettivo era soffiare i migliori agli altri e non smembrare mai la squadra». Dopo un po’ che parlava: «Questo Toro è caduto troppo in basso. È tutto così triste». Alla fine di quella stagione, di lì a poche settimane, i granata sarebbero retrocessi in B. «Ma le sembra un Toro vero, questo? Di sicuro io non posso riconoscermi in questo Torino. Questa squadra che adesso sta soffrendo le pene dell’inferno non ha nemmeno un brandello di quel cuore granata che batte dal 1906. È una condanna il Torino di oggi. E io non guardo nemmeno la tv, non ho più le forze. Mi stanco subito». Per provare (ma chissà come!) a… sdrammatizzare, replicammo: presidente, almeno così ha evitato di vedere le immagini della sconfitta per 5 a 0 nel derby dell’andata. Si riscosse immediatamente: «Mi è bastato saperlo: non sono più le stracittadine mie, quelle che vincevamo noi». Più vittorie nei derby che sconfitte, nei 19 anni di Pianelli. «Da quaggiù continuo a fare il tifo per un Toro astratto, per dei simboli che saranno sempre dentro di me». E il suo Filadelfia abbandonato a rischio crolli?, gli chiedemmo. (L’anno dopo, il Fila sarebbe stato demolito, invece che salvato). «È Il segno di un crollo anche morale. Ai miei tempi studiai un progetto per ristrutturarlo e trasformarlo in una cittadella del Toro. Ma fui bloccato dalla politica e dalla burocrazia. Gente che contava mi disse: lascia perdere, non sei intrallazzato, i permessi non te li daranno mai. E il Filadelfia che oggi si sbriciola è il simbolo del Toro che va in rovina». Fu una lunga, faticosa, dolorosa, intensa chiacchierata di un paio d’ore: anche divagando molto, parlando non solo del Torino. Tra lunghe pause, prima dell’ultima: «Siamo appesi a un filo, io e la mia Cecilia. La vita non ha pietà. E io mi sento molto stanco». (Da diversi anni, dopo i coniugi Pianelli è volata in cielo anche la figlia Cristina). Lo salutammo nel modo più dolce possibile. Continuammo a chiamarlo al telefono ciclicamente, negli anni successivi. Ci concesse altre interviste. Poi tornammo a Villefranche nel 2005, 9 anni dopo, sempre ad aprile. Ma per il suo funerale. Eravamo di nuovo a casa sua vicino ai numerosi giocatori, dirigenti e collaboratori venuti apposti. Fuori, per strada e davanti alla chiesa, tanti, tantissimi tifosi. Si era in attesa del corteo funebre e della funzione celebrata da don Rabino. Suonò il campanello della porta: era un tifoso e in mano aveva un sacchettino di terra. Spiegò alla figlia di Orfeo: «L’ho raccolta al Fila, tra i ruderi rimasti dopo la demolizione. Sono venuto apposta per portarvela». Con quella terra appoggiata dentro alla bara vicino al cuore riposa Pianelli, da 19 anni. Anno Domini 2005: ad aprile morì Orfeo, poi a luglio il Toro, dichiarato fallito. Quindi, a metà agosto, un uomo all’improvviso squarciò un sipario: «Mi chiamo Cairo e voglio il Torino».
Il confronto impossibile
Il più grande presidente del Toro dopo Ferruccio Novo, il creatore del Grande Torino. Fede granata e gloria. Pianelli rimase alla guida del club dal 20 febbraio del 1963 al 21 maggio del 1982. Con al fianco il braccio destro Traversa, il segretario generale Bonetto e ottimi collaboratori (molti dei quali già in granata da tanti anni), circondato da un gruppo di soci tutti tifosi, salvò il Torino sull’orlo del fallimento e lo condusse progressivamente di nuovo ai vertici del calcio italiano. Ecco i suoi maggiori risultati in ordine cronologico: le finali (perse) di Coppa Italia del 1963 e del ‘64, il 3° posto in A e la semifinale di Coppa delle Coppe nel ‘65, la vittoria della Coppa Italia nel 1968, il bis nel 1971, il 2° posto in campionato nel ‘72, lo scudetto del 1976, i secondi posti in A del ‘77 e del ‘78, le 3 finali perse di fila in Coppa Italia nel 1980, ‘81 e ‘82 (l’ultima delusione, giusto il giorno prima di vendere il Torino). Per Urbano Cairo nello stesso periodo di tempo, 19 anni, i migliori risultati sono stati 2 settimi posti in A (4 stagioni in B). Per Pianelli, 17 derby vinti, 15 pareggiati e 14 persi. Per Cairo, una sola vittoria, 6 pareggi e 24 sconfitte. LEGGI TUTTO