Cairo, ma una punta per il Toro la compri?
Basterebbe un Destro
Una roba allucinante, sì, per ricorrere a un aggettivo caro a Juric per provare a spiegare l’inspiegabile. Che poi non è nemmeno inspiegabile, anche se a volte si fa davvero fatica a crederci: la verità è che il Toro – squadra composta da calciatori in parte di medio livello, in parte di livello basso, ma con un impianto di gioco brillante, coraggioso e fin troppo coerente in qualsiasi contesto agonistico – non ha un attaccante degno di tale definizione; di bomber, goleador, non parliamo nemmeno. Con quanto la squadra costruisce, basterebbe – le sarebbe bastata – un mestierante d’area di rigore (avversaria). Nei giorni scorsi, in vista della partita con l’Empoli, lo avevamo indicato più volte proprio in Mattia Destro: niente di che, ma comunque uno che quando sente – non necessariamente vede, come ieri, quando stava di spalle – la porta, sa comunque che cosa fare per creare i presupposti di un pericolo. Con Destro, un Destro qualsiasi, al posto dell’inconcludente Sanabria o del poco sereno Pellegri, entrato al posto del paraguaiano per l’assalto finale, ieri il Toro avrebbe vinto. Bon. Ma vinto largamente, eh. Anche invertendo i portieri, ma questo è un altro problema.
Se ci si mette pure l’arbitro
Comunque 20 tiri malcontati, di cui 7 in porta; un palo clamoroso a porta vuota; due gol annullati per fuorigioco in partenza di pochi centimetri; due terzi del totale di possesso palla; parate strepitose di Vicario su tiri a botta teoricamente sicura, a differenza di Milinkovic-Savic che avrebbe dovuto prenderne una, soltanto una, neanche tanto difficile e forte, e invece è andato nuovamente giù come un sacco di patate, goffo, senza spinta, senza slancio, su una rovesciata prevedibile stante la marcatura a due metri di Djidji. Poi, certo, il Toro si è innervosito, non ha più giocato bene come aveva cominciato, ma è anche comprensibile. Soprattutto contro un avversario che non solo si è difeso dall’inizio alla fine – legittimo, per quanto arcaico – ma ha perso una quantità di tempo pazzesca, complice un arbitraggio assolutamente funzionale a tale intento. Il signor Fourneau ha dato 5 minuti di recupero quando già 15 sarebbero stati pochi, e di quei 5 (con il Toro rivitalizzato dal pari al 90’) ne ha fatti giocare forse la metà. Quelli dell’Empoli, poco prima, avevano addirittura avuto il coraggio di contestare una mancata restituzione di palla dopo aver cercato di fare melina anche una volta che era stata loro ridata, dopo che l’avevano buttata fuori perché uno dei loro si era accasciato a terra per la seconda volta in pochi minuti, perdendone in totale almeno tre. A proposito: solo in Italia vige ancora questa consuetudine assurda, irregolare, quasi omertosa negli atteggiamenti da uomo d’onore dell’interessato di parte: la regola dice che soltanto l’arbitro è autorizzato a fermare il gioco, in caso di incidente palese o potenzialmente pericoloso per il sinistrato, tipo una botta in testa; non certo per crampi più o meno presunti o per stanchezza quasi sempre capziosa, cose che nello sport farebbero parte del gioco. Non nel calcio italiano, però, dove quando si perde ci si rialza in un amen anche se moribondi e quando si punta a mantenere il risultato si fanno (e si tollerano) delle sceneggiate indecorose. Di qui, al solito, la classica, tristissima gazzarra, tra sguardi torvi e minacce di ritorsione. Così da perdere ancora un bel po’ di altro tempo e consentire all’arbitro la sceneggiata finale di qualche inutile ammonizione a caso. Punto e a capo. Anzi, ancora no. Il signor Fourneau – come già il suo collega Ayroldi un mese fa a San Siro in Inter-Torino, che si era rimangiato il rosso a Sanabria per una sbracciata assolutamente ordinaria in un contrasto aereo con Calhanoglu – ha avuto bisogno di essere richiamato al Var per capire che lo stesso paraguaiano non aveva commesso fallo da espulsione sull’empolese Cambiaghi; per salvare in parte la faccia è passato dal rosso al giallo, ma in realtà non era nemmeno fallo. La verità è che ormai certi arbitri non vedono più, da soli, manco le cose più evidenti, le dinamiche di gioco fisico più elementari, basilari nel calcio; perfino sui calci d’angolo sbagliano con una frequenza impressionante, non ravvisando deviazioni evidenti anche solo dal “rumore” del pallone, oltre che dalla sua traiettoria.
20 occasioni, un gollonzo
E la verità, tornando al Toro senza un mestierante del gol, è che – ribadiamo per l’ennesima volta – mai come quest’anno sarebbe bastato davvero poco a Cairo per far diventare il lavoro di Juric un’opera ambiziosa e non la solita incompiuta. Undici punti in 9 partite, per una squadra che gioca sostanzialmente sempre all’attacco, perfino quando dovrebbe darsi una calmata e ragionare un po’, ma ha segnato fin qui la miseria di 8 reti, sono per certi versi un miracolo. Come, paradossalmente, quel gollonzo di Lukic. Episodio che in sede di consuntivo non si capisce bene se faccia più ridere o piangere; di sicuro, alimenta più la rabbia che non un senso di sollievo. Basti dire che perfino Zanetti, tecnico dell’Empoli, pur raggiunto allo scadere ha avuto l’onestà di ammettere che gli era andata di lusso e basta. Né dà sollievo vedere il Toro che per una volta nel finale l’aggiusta parzialmente anziché rovinarla. Perché il calcio, anzi una squadra di calcio, dovrebbe essere un’altra cosa. Dovrebbe avere intanto una spina dorsale razionale e solida – con elementi affidabili almeno nei 3 ruoli chiave: portiere, perno di centrocampo, punta – e poi fare il resto in base alle idee di gioco e alle qualità tecniche e atletiche degli interpreti a disposizione. I quali invece, nel caso di Juric (ancora in tribuna per squalifica e sostituito da Paro) spostano un po’ più in là il teorema: non hanno la minima idea di cosa debbano fare al momento del dunque; proprio non conoscono l’abc del gol. Arrivano tipo in tre/quattro al limite dell’area, di gran carriera dopo fraseggi veloci e ficcanti, con almeno uno di loro libero, e tu pensi: ok, stavolta lo fanno, dai. E invece niente: sempre la scelta o l’esecuzione sbagliata. Mai l’individuazione del corridoio giusto dove far filtrare il pallone, anche quando la giocata si prospetta elementare, basica. Fino all’anno scorso almeno c’era Belotti a togliere qualche castagna dal fuoco dei consueti mercati insufficienti; adesso, nessuno. Un bel mazzo di trequartisti e mezze punte, alcuni pure promettenti e sovente brillanti, ma non uno che abbia chiaro in testa il concetto fondante del calcio: bisogna buttarla dentro, o quantomeno provarci, senza troppi ti-tic e ti-toc, riserve mentali, giocate frufrù.
Rinforzi? Silenzio
Sabato c’è il derby, contro la Juve più disastrata di questi ultimi anni. Al netto del classico granatismo, cioè pessimismo cosmico dei tifosi del Toro, per cui “vedrete che si risolleveranno contro di noi” oppure “tanto in qualche modo perderemo pure questa, come al solito da 17 anni a questa parte”, la questione deraglia nella solita, frustrata, disperata domanda: Cairo, ma almeno a gennaio un attaccante che possa sostituire il Gallo perduto lo prende? Gliel’hanno chiesto, all’uscita dallo stadio. Ovviamente, non ha risposto. Che gliene importa, in fondo, a lui? Il decimo posto, la sua stella polare, tanto è sempre lì.
Lo scorso agosto, alla corte del presidente più inviso della storia granata, si erano risentiti per il 5 e mezzo dato da Tuttosport in pagella al mercato estivo del Torino FC, invece esaltato da altri media. Era un voto sbagliato, ingiusto, erano stati pronti a lagnarsi e a rinfacciare dopo le prime due vittorie contro le neopromosse. Avevano ragione. Era troppo alto. LEGGI TUTTO