TORINO – Quel giorno di pioggia è oggi. Anche se c’è il sole. Anche se non piove, piove nei nostri cuori. Nell’anima c’è burrasca. Solo lo spirito, il nostro, è terso. Lucente. È la doppia, all’apparenza contraddittoria, potenza di Superga. Il buio caliginoso, tetro, del giorno oscurato dalla morte; la luce che squarcia l’oscurità, quella che da essa, dalla tenebra, come per miracolo, nasce e illumina la vita.
Il 4 maggio di settantadue anni fa, sul colle guardiano di Torino, che la città domina e protegge dalla Basilica juvarriana, in un tuono scomparve il Grande Torino. Squadrone di calcio, somma entità ludica di un’Italia piegata dalla dittatura e piagata dalle guerre; e potente essenza sociale, il collante che di quell’Italia diroccata ma in rincorsa s’è fatta simbolo, vessillo assieme a Bartali, a Coppi, all’energia che ogni italiano sprigiona per rinascere. Una voglia, un bisogno, la ricerca della felicità. Tifo, passione per il calcio, e fame di vita, sete di libertà, desiderio di desiderare, di soddisfare i desideri non solo propri, bisogno di potersi di nuovo guardare nello specchio della ricostruenda identità nazionale. Nazionale la tragedia, gli italiani ripiombano nel clima di guerra, la ferita riapre le tante, le troppe mai in realtà rimarginate. Il 6 maggio 1949, quei pietrificanti funerali in una Torino tombale e composta sono il saluto ai ragazzi del Filadelfia, agli uomini del velivolo Fiat G.212 I-Elce, ma, assieme a loro, una moltitudine di italiani seppellisce anche la guerra e i cari perduti che nessuno aveva potuto esequiare.
Il 4 maggio è il lutto collettivo, è il giorno del rito e del ricordo istituzionale per noi innamorati di Toro e per chiunque ami il sentimento, l’emozione. Un giorno potente, un gigante, emblema del legame inscindibile: tributo di affetto e ancor più di riconoscenza che ci avvinghia al Grande Torino. Un legame che con l’allontanarsi del tempo – per assurdo, ma assurdo non è: è solo un altro dei prodigi di Superga – si avvicina e ci avvicina sempre più. È sempre più corto, sempre più forte, intenso, vero. Però, il 4 maggio è soprattutto plurale: sono 31, personali tragedie moltiplicate per cinque, per dieci, per cento. Sono trentuno famiglie abbattute su quell’aereo. Trentuno sinfonie di affetti e di amori, un concerto di note diventate di schianto una sola, muta, perenne, eternamente dolente. Questo, ahinoi, l’abbiamo dimenticato troppo, troppe volte, troppo lo dimentichiamo.
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