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    Iachini esclusivo: “Juve, Vlahovic-Dybala: che coppia!”

    Che cos’hanno in comune, oltre al gol, Dusan Vlahovic, Mauro Icardi e Paulo Dybala? Beppe Iachini. L’ex allenatore della Fiorentina nelle ultime due stagioni ha vissuto da vicino il decollo del serbo (21 reti in viola nel 2020-21). Un film già visto nel 2014-15 con la Joya a Palermo e nel 2012, ai tempi della Sampdoria, con il giovanissimo Maurito. «In Sicilia – racconta il tecnico marchigiano – ho valorizzato anche Belotti e a Firenze pure Federico Chiesa».

    Iachini, a bruciapelo: Vlahovic è già pronto per un top club come la Juventus?

    «Sì! Ma fatemi aggiungere una cosa: la crescita di questo ragazzo mi piacerebbe condividerla con due colleghi che stimo come Montella e Prandelli».

    Perché è così speciale il 21enne bomber viola?

    «Dusan ha la stoffa, la tecnica, la personalità e la forza da grande squadra. Poi che sia Juventus, Real Madrid o Manchester United non spetta a me dirlo. Dopo Haaland, Dusan è il miglior attaccante classe 2000. Proprio per questo non mi stupirei se lo prendesse la Juve, ma nemmeno se la Fiorentina lo trattenesse: Commisso è molto legato al ragazzo. Queste sono valutazioni da dirigenti, non da uomini di campo come me. Piuttosto posso garantirvi un’altra cosa».

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    Quale?

    «Ai tempi del Palermo ho allenato anche Dybala. Seppur siano giocatori diversi, Paulo e Dusan, in Vlahovic ho rivisto la stessa fame e la medesima ambizione che aveva la Joya in Sicilia. Dybala era un predestinato e anche Vlahovic lo è».

    Tecnicamente, invece, chi le ricorda Vlahovic?

    «Bobo Vieri. Piede mancino, bella stazza, ottima difesa della palla, bel tiro, buona tecnica ed eccellente attacco della profondità. E soprattutto, come Vieri, Vlahovic è uno che fa gol».

    Come vedrebbe in coppia i suoi pupilli Dybala e Vlahovic?

    «Sono entrambi mancini, ma come dico spesso: averne di attaccanti così… (risata). Quelli bravi come Paulo e Dusan possono sempre giocare insieme. Sarebbero una coppia esplosiva e insieme continuerebbero a segnare tanto. Dybala nell’ultima annata è stato molto sfortunato, ma il suo talento non è in discussione: parliamo di un campione che si è imposto a suon di reti e scudetti anche in mezzo ai tanti big della Juventus».

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    Szczesny si blinda, ma la Juve è ancora su Donnarumma

    […] Dagli spifferi che giungono dalla Continassa il pensiero della dirigenza della Juventus non sarebbe così lontano da ciò che frulla nella mente di Szczesny. Il club ex campione d’Italia non smania dal desiderio di mettere il polacco in lista di sbarco, dopodiché i rovesciamenti nel mercato sono all’ordine del giorno e se Gigio Donnarumma resta un’occasione che sarebbe esiziale lasciarsi scappare, non si fa peccato a sottolineare che sì, c’è pure la Juve sul portiere della Nazionale di Roberto Mancini. Un ragazzo che tra 23 giorni sarà uno svincolato di lusso con il contratto su carta intestata Milan non più valido. Così come non si cade in errore se si scrive (e si riscrive, e si riscriverà ancora) che Szczesny è un’idea buona per Arsenal, Tottenham e Chelsea, ma pure per la nuova Roma di José Mourinho e che in quel caso lo sbarco torinese dell’ex rossonero rischia di essere un’automatica conseguenza, considerato sia il feeling intatto tra la squadra mercato juventina e l’agente Mino Raiola, sia le voci che circolano attorno al ’99 di Castellammare di Stabia le cui intenzioni non sarebbero così oscure. Difficile dire di no alla Juventus in questo momento storico… […]

    La Juve monitora Donnarumma

    È un fatto, però, che alla Continassa la situazione di Donnarumma sia oggetto di un monitoraggio costante, almeno fintantoché Raiola terrà aperto il canale con i bianconeri. Al tempo stesso questi ultimi sanno bene che da un momento all’altro il destino di Gigio può cambiare ed ecco perché le sempre più insistenti sirene del Paris Saint-Germain fanno pensare a un incombente tentativo di sorpasso da parte dei francesi. Lì dove, evidentemente, non si farebbero problemi a tenere due portieri titolari in rosa, con Keylor Navas e l’ex milanista, a sua volta gradito al Barcellona e il cui nome sta cominciando a girare anche in Premier League. Nella Juve vale il contrario: prima deve partire Szczesny, che ha tre anni di contratto e la fiducia di Massimiliano Allegri.

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    Juventus, Tevez si ritira: il grazie dei tifosi che lo hanno amato più di CR7

    TORINO –  Mentre il ritorno di Massimiliano Allegri occupa i discorsi juventini, insieme al sogno di riabbracciare Paul Pogba, al rinnovo di Giorgio Chiellini e al possibile rientro di Andrea Barzagli nello staff, nei titoli ricompare il nome di Carlitos Tevez (che ha annunciato il suo ritiro a 37 anni). Ed è subito 2015, una delle stagioni più entusiasmanti dell’ultimo decennio bianconero, la prima con Allegri in panchina e l’ultima delle due con Tevez là davanti, a trascinare la squadra fino allo scudetto, alla Coppa Italia e alla finale di Champions League con il Barcellona, quando proprio un suo tiro resta il più grande rimpianto della carriera di Allegri. «Da quella posizione, in quella situazione, Tevez l’aveva sempre messa dentro. Ci riprovasse altre dieci volte non riuscirebbe a sbagliare neanche volendo. Quella notte, in quel momento, invece sbagliò», ha raccontato Max in un rilassassimo pranzo a Livorno di qualche anno fa, dopo il caffè e una tonnellata di pesce. Era il gol del potenziale 2-1 per la Juventus, dopo il pareggio di Morata. Chissà sarebbe cambiata la storia di quella partita e della Juventus stessa.

    Tevez e l’amore dei tifosi della Juve

    Non ha cambiato, quel tiro finito alto sulla traversa, l’amore profondo che il popolo juventino ha sempre nutrito e coltivato nel tempo per Carlitos, giocatore strepitoso e romanzesco essere umano. E’ stato alla Juventus due stagioni, 96 partite giocate e 50 gol. E ha, senza dubbio, lasciato una traccia emotiva molto più profonda di quanto sia finora riuscito Cristiano Ronaldo che di gol ne ha segnati il doppio (curioso il confronto fra i due caretteri: l’argentino orgoglioso della sua bruttezza, il portoghese così maniacalmente condizionato dal suo aspetto). 

    Tevez, la storia

    Tevez si incastra nella storia della Juventus nel momento giusto e al posto giusto. Dopo la rinascita del post-Calciopoli e i primi due scudetti di Conte, è il primo grande fuoriclasse internazionale che viene ingaggiato con magistrale manovra dlla coppia Marotta-Paratici. Il suo arrivo viene festeggiato come uno scudetto, con un inusuale affaccio dal balcone a salutare una folla di tifosi assiepati poco sabaudamente sotto la sede. Perché Tevez non firma solo un contratto, timbra un passaporto per sognare a tutta la gente juventina, che dopo essere tornata a rivedere le stelle dall’inferno in cui era precipitata nel 2006, non riusciva ancora a mettere a fuoco i nuovi orizzonti. Tevez era la risposta: sì, la Juventus era tornata ad attirare e riuscire a ingaggiare un campione di altissimo livello, la risalita continuava.

    Tevez e quel pomeriggio in redazione

    Tevez prende la 10, quella di Del Piero. Non ha un attimo di esitazione. D’altra parte ha un concetto di paura tarato su altre scale. Quando viene a farci visita a Tuttosport, in un memorabile pomeriggio con contorno, da lui graditissimo, di mate e empanadas, risponde con uno sguardo torvo alla domanda sui timori che possono accompagnare un giocatore che scende in campo al Bernabeu (di lì a poco si sarebbe giocata Real-Juve). «Ma cosa dici? Hanno forse tolto le recinzioni al Santiago? No, perché io ho iniziato a giocare per strada, nei barrios più poveri di Buenos Aires, dove la gente guarda la partita sul marciapiede e scommette: i soldi in una mano, il coltello nell’altra. Le sospensioni delle partite non avvenivano per pioggia, ma perché nelle vicinanze poteva scoppiare una sparatoria ed era meglio mettersi al sicuro per una mezzora. Uno stadio con la gente in tribuna non può farmi paura, mica vogliono accoltellarmi no? Sono venuti a vedermi. Al massimo sono loro che possono aver paura di me». Non era bullismo, spiegava il suo punto di vista senza la pretesa di impressionare nessuno, la bombilla di mate in mano e l’aria di chi, dopo tanto tempo, non si è ancora a suo agio nello stare al centro dell’attenzione.

    L’Apache, la leggenda

    Troppo spesso, però, lo sfregiato di Forte Apache nella narrazione ha prevaricato il fenomenale calciatore. Perché sì, Tevez aveva avuto un’infanzia da noir latinoamericano e ne portava orgogliosamente i segni sul viso e sul collo, ma era un attaccante mostruoso per tecnica, senso tattico, generosità e capacità atletiche. Ha unito il senso del gol, da centravanti istintivo, a una non comune capacità di leggere le situazioni delle partite. Lo trovavi ovunque in una Juventus che aveva costruito la sua forza proprio su quel senso di solidarietà agonistica, per la quale tutti si aiutavano nei momenti difficili della partita. Tevez sublimava quello spirito con la classe, perché oltre a raddoppiare una marcatura a centrocampo, era in grado di saltare l’uomo (o gli uomini, come nel leggendario gol al Parma, in cui ne dribblò tre di fila scendendo maradonescamente dalla sua metà campo alla porta avversaria), segnare gol di potenza assoluta (il “bombazo” al Genoa), inventare assist (citofonare Morata e Llorente per referenze), trasformare punizioni dal limite, lanciare missili terra-aria da fuori area (il gol del Milan a San Siro) e inventare traiettorie da giocatore di biliardo (tradizione assai argentina, peraltro).

    Juve, Manchester United, City e Boca Juniors

    La Juventus è stata solo un capitolo, neanche dei più lunghi, della carriera di Tevez che ha alzato la Champions con lo United (giocando con il giovane Ronaldo, con cui condivide il giorno di nascita, 5 febbraio, ma di cui è più vecchio di un anno), ha vinto la Premier con il City, ha scritto la storia del suo amato e leggendario Boca Juniors. Tuttavia racconta spesso dell’eterna gratitudine alla Juventus, la squadra che gli ha fatto «tornare l’amore per il calcio» in un momento critico della sua carriera. Gratitudine reciproca, perché Tevez si è preso un pezzo di cuore dei tifosi con quel non risparmiarsi mai, in nessuna situazione e in nessun momento, che qualche volta conta quanto i gol e sicuramente molto, molto più dei record.  LEGGI TUTTO

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    Juventus, perché Paratici lascia (e potrebbe tornare)

    TORINO – Commozione, risate e ricordi: undici anni di Juventus sono un grumo di emozioni che si blocca nella gola di Fabio Paratici, costretto un paio di volte a fermarsi per trattenere le lacrime, durante la sua conferenza stampa di addio. Prima il ringraziamento di Andrea Agnelli, che parte citando il bloc notes di Palazzo Parigi, ovvero la sede milanese della Juventus, quartier generale di Paratici in tempo di mercato. Ma sono tanti i riferimenti intimi fra i due, a dimostrare un rapporto che è andato oltre la questione strettamente professionale ed è sconfinato nell’amicizia umana. «Penso che alla Juventus sia arrivato un ragazzo e vada via un uomo, col grande pregio della curiosità. Un uomo istintivo, che segue il suo talento, ma anche responsabile», dice Andrea prima di abbracciare Paratici e consegnargli una targa che celebra i suoi anni in bianconero.

    Paratici come Allegri

    Il clima ha ricordato a tutti quello con cui Agnelli aveva salutato Massimiliano Allegri, che due anni dopo è di nuovo alla Juventus. Ci sarà un ritorno anche per Paratici? È possibile, forse addirittura probabile, ma non sarà a così breve scadenza. Paratici adesso è atteso da un avventura in Inghilterra, il Tottenham è la soluzione più calda in questo momento, e i cicli dirigenziali sono più lunghi. Ma il legame con Agnelli e, soprattutto, con il club resta fortissimo per il dirigente che più di una volta ha sottolineato come «passare alla Juventus è una grande fortuna per quello che si impara a livello di educazione, mentalità, determinazione, cultura del lavoro».

    Perché si è consumato il divorzio: il dubbio

    Resta il dubbio sul perché, di fronte a tanta commozione e amicizia, si sia consumato il divorzio. Agnelli dice: «A fine stagione abbiamo avuto una lunga chiacchierata nel mio ufficio: è stato naturale convenire che forse era il momento di chiudere e aprire un percorso diverso». Mancanza di stimoli? Forse un poco: stare alla Juventus e nella posizione di Paratici logora in modo sovrumano e Fabio, da un po’ di tempo, un po’ di stanchezza la sentiva, per quanto sempre soverchiata dalla smania di fare, decidere, non stare con le mani in mano. Contrasti interni? Pare di no, visti i saluti e la secca smentita di Agnelli che l’arrivo di Allegri abbia comportato in automatico l’addio a Paratici. Resta la vecchia filosofia del presidente: cambiare sempre prima di essere costretti a farlo. E la forza della Juventus, in questi undici anni, è sempre stata la capacità di cambiare: in campo e fuori. Poi non sempre si può azzeccare tutto, ma fra i motivi di un ciclo così mostruosamente lungo vanno cercati proprio nel cambiamento continuo.

    I perché della separazione

    Paratici, insomma, non sembra un dirigente mandato via perché «ha sbagliato qualcosa», come si legge da più parti, elaborando illazioni assortite su quale sia, la cosa. Ha certamente commesso degli errori, alcuni dei quali possono aver pesato nella decisione. Ma ridurre tutto a «se ne va perché ha sbagliato Sarri» è un po’ semplicistico e riduttivo. La Juventus cambia perché è convinta che solo così si può continuare a vincere, alimentando la macchina con altri stimoli, diverse motivazioni, nuove responsabilità. LEGGI TUTTO