E Napoli conquistò Diego: quarant’anni fa l’arrivo di Maradona
Quarant’anni fa, in una giornata di rinnovato sole, una intera città, di sole e di mare, di anime perdute e di anime salve, di balconi sulla felicità e sulla disperazione, si fermò per salutare, abbracciare e cantare un ragazzo argentino, con il volto da scugnizzo, venuto in uno stadio per miracolo mostrare, per una epifania calcistica che oggi è ballata popolare, odissea della nostalgia e del rimpianto, murales ed ex voto a illustrare la favola per i vicoli antichi, a portare avanti una narrazione che non avrà mai fine, nei secoli dei secoli. Io, giovane inviato di Tuttosport, diretto da Piero Dardanello, avevo seguito da Barcellona e ora lì, a Napoli, centro preciso è perfetto dell’universo del pallone, il trasferimento di Diego Armando Maradona.
Maradona: la magia di un ricordo
Il nostro calcio, che soltanto due anni prima, con una impresa epica, da realismo magico, aveva conquistato, passando dal buio al miele, il Mundial ‘82, metteva adesso insieme a quegli assi, da Zoff a Pablito, oltre a fuoriclasse come Zico e Platini, anche il talento più lucente, quel Dieguito che aveva deciso di lasciare il celebrato Barça per portare la sua fantasia e le sue meraviglie in una squadra che, da tempo immemore, tra delusioni e illusioni, attendeva la stella cometa di un nuovo e decisivo profeta: e ora, eccolo lì, sul prato verde al San Paolo, che ora porta il suo nome, come una basilica laica, fare il suo ingresso sul prato verde tra un battere di cuori, un delirio collettivo, tutto esaurito, ottantamila persone e forse anche di più, donne e uomini, anziani e bambini, i neonati, gli ingenui e i furbi, i generosi e gli arroganti, i filosofi e i pescatori, chi aveva letto Matilde Serao e chi sapeva imitare Totò.
E fuori dallo stadio tanti altri in attesa, a immaginare, a lasciare comunque il segno di una presenza, di una riconoscenza e poi le radio accese da Posillipo ai Quartieri Spagnoli, fermo il traffico, sospeso il tempo. Ma il football, metafora della vita, elemento fondamentale della cultura contemporanea, antidoto alla malinconia, mai aveva conosciuto un momento simile. E là dentro, in quel luogo trasformato in un infinito scrigno capace di raccogliere tutti gli stupori, tutti i sospiri, a quel ragazzo dai capelli arruffati e dal sorriso a girasole, che si portava nell’anima un fanciullino mai domo, bastò calciare la palla al cielo e ringraziare i “napolitani” per entrare già nel mito. Ancora erano lontane le notti sbagliate, le cadute nel baratro della droga.
Maradona e la “grinta della vita”
Ma quel Maradona, non avrebbe mai cancellato il Diego della generosità, della partite su campi fangosi per beneficenza, degli scudetti, delle imprese possibili e impossibili, quella punizione a sovvertire le leggi della fisica a Stefano Tacconi, quella rete da centrocampo, quell’altra con le spalle voltate alla porta, in acrobazia, di testa, per terra, e qualcuno giura di averlo visto palleggiare con una goccia d’acqua.
Osvaldo Soriano, arpiniano bracconiere di tipi e personaggi, non riuscì, prima del suo passo d’addio, a portare a termine due suoi desideri di scrittura: dare un seguito al suo primo capolavoro “Triste, solitario y final” con Emilio Salgari, il padre degli eroi, al posto di Philip Marlowe, il detective americano uscito dalla penna di Raymond Chandler) e dedicare un’avventura a quell’eroe dalla furibonde battaglie, anche politiche, contro il Palazzo della pelota, contro il capitalismo, per la dignità degli ultimi e degli emarginati e degli invisibili, dalla traboccante bravura.
Diego Armando Maradona. Quel 5 luglio, per i presenti e per gli assenti, per le generazioni future, per i bambini che saranno chiamati Diego, per quello striscione al cimitero con sopra scritto “Cosa vi siete persi”, rimarrà una data da festeggiare, da commemorare, per dire ancora “grazie per averci donato una Utopia realizzata”: perché non è vero che tutto passa, che la memoria lascia vuoti e talvolta cicatrici: camminate per Napoli e a ogni passo sentirete il respiro di Dieguito, rivedrete quel suo sguardo racchiudere tutte le sfumature d’azzurro, quel suo essere un masaniello fragile, ma coraggioso e indomito, un esempio per tutti i suoi compagni.
Tutti, nessuno escluso. E mi resterà per sempre una sua frase, una delle ultime, capace di riassume tutta la sua essenza di uomo e di calciatore: “Da giovane avevo la grinta della fame. Passata la grinta della fame, ho avuto la grinta della gloria. Adesso, ho la grinta della vita”. Una vita che è finita sulla terra, in solitudine, ma non nel pensiero dominante di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo o, semplicemente, di vederlo all’opera, con il suo abbagliante sinistro a disegnare arabeschi colorati nel suo elemento naturale: un terreno di gioco, tra zolle e avventura, tra la folgore e l’imprevedibilità. Ti vogliamo sempre bene, Dieguito: nostro fratello di luminose primavere, dove in tutto c’è stata bellezza. LEGGI TUTTO