Toro, il fallimento in stile Cairo
TORINO – Non è vero che ha sempre torto, Cairo. Ha anche ragione, a volte. Tipo quando dice, come l’altro ieri, che «il Torino è già fallito 15 anni fa». Già: c’è scritto perfino su wikipedia. Nessuno del resto può ricordarselo meglio del signor Urbano, visto che quel fallimento, atteso dietro le quinte, gli consentì nel 2005 di rilevare per pochi spicci quasi simbolici le ceneri di una gloriosa società; una società tra le più affascinanti e benvolute al mondo e comunque all’epoca – e ancora oggi, malgrado lui – tra le più vincenti del calcio italiano. Peccato che parta da questo assunto storico, il proprietario e presidente del rimarchiato Torino FC, non per coltivare una memoria collettiva ma per perseguire un interesse personale: il suo. Quello di giustificarsi per il progressivo, inesorabile depauperarsi – nei suoi tre lustri di reggenza – del patrimonio sportivo e passionale di un club, e di una tifoseria, che sapeva farsi forza della propria leggenda e dei propri valori anche nei periodi più grami. Che sono stati indubbiamente tanti, mai però al punto di frustrare così e alla lunga narcotizzare il senso di appartenenza dei cuori granata.
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Quando Cairo rievoca il fallimento del Torino – per giunta a latere di un evento organizzato dai suoi media per promuovere e raccontare dalla sua ottica distorta «l’incredibile avventura alla guida del Toro»: incredibile, davvero, nel senso che non ci si crede – lo fa, ipse dixit, per spiegare le sue politiche di mercato. «Avrei voluto fare di più, ma dobbiamo essere prudenti: il Toro è già fallito 15 anni fa», appunto, adducendo il fantasma di futuri bilanci negativi. Ormai nemmeno cerca più di prendersi i meriti; gli basta (tentare di, senza riuscirci troppo) scrollarsi di dosso i demeriti. Detto che ci si chiede come in generale si possa parlare di passivi e perdite per una società che era stata pagata poco più di zero e adesso, per quanto si sia deprezzata negli ultimi due anni, vale comunque tra i 150 e i 200 milioni, la malizia di Cairo è duplice. Da un lato si cimenta in un’improbabile mozione degli affetti lasciando trapelare un dispiacere al quale ormai non crede quasi più nessun tifoso, per la serie “ah, se AVESSI potuto AVREI fatto”: ma per piacere.
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Dall’altro agita per l’ennesima volta lo spettro della paura, ricalcando le parole con cui da anni i suoi sodali rimbalzano le critiche, i malumori, la rabbia, le accuse. “Ah, vuoi fallire?”; “Rivuoi Cimminelli e Vidulich?”; “Se vuoi vincere tifa per quelli di Venaria”, cioè la Juventus nel gergo tifoso. Una sorta di ricatto morale per cui non ci sarebbe alternativa fra questa modestia sportiva, a tratti pena, tra questo nulla emozionale, tra questo basso profilo istituzionalizzato e, appunto, il fallimento. […]
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