Ricordando Arpad Weisz, l’allenatore assassinato
Costretto all’addio
L’Italia era il Paese che Árpád Weisz aveva scelto per vivere. Non lo avrebbe mai detto, ma era andata così. Era uno studente di Giurisprudenza a Budapest quando aveva dovuto interrompere gli studi per andare a combattere contro gli italiani nelle fila dell’esercito dell’Austria Ungheria. Fatto prigioniero sul monte Merzli, al confine tra Friuli e Slovenia, era stato mandato in un campo di detenzione in Sicilia, nei pressi di Trapani, da dove era rientrato in Ungheria a fine conflitto. Pensava di non tornare mai più in Italia ed invece il calcio ce lo aveva riportato. I suoi figli, nati a Milano, erano di cultura italiana. Erano anche battezzati perché lui e la moglie Ilona, anzi Elena, non erano ebrei integralisti. Le leggi sulla razza imposero ai cittadini ebrei di origine non italiana, arrivati in Italia dopo il 1919, di abbandonare il Paese entro sei mesi. Nel gennaio 1939, di conseguenza, la famiglia Weisz lasciò Bologna, in treno, per raggiungere Parigi. Árpád, Ilona, Roberto e Clara erano impauriti, disorientati, increduli. Non poteva essere diversamente. Weisz sperava di trovare una squadra francese, magari il Red Star, da allenare. Ma al club parigino non c’era posto, così la famiglia si trasferì in Olanda.
Weisz nei Paesi Bassi trovò un ingaggio al Dordrecht, nell’omonima città, un club minore che lui salvò al primo anno e poi lanciò ai vertici al secondo piegando Feyenoord ed Ajax. Proprio quest’ultimo club, che era nell’orbita della comunità ebraica di Amsterdam, si interessò a lui. Ma il 10 maggio 1940 i tedeschi invasero i Paesi Bassi e in sette giorni il Paese cade nelle mani dei nazisti. Dall’Olanda non si poteva più entrare né uscire. Pochi mesi dopo, nel 1941, Adolf Hitler da Berlino ordinò la “soluzione finale”. La Gestapo andò a prenderlo il 2 agosto 1942. Con lui furono arrestati la moglie ed i figli. Il 2 ottobre i quattro vennero inviati al campo di raccolta di Westerbork da dove vennero caricati su un treno blindato, destinazione Auschwitz, in Polonia. Dopo tre giorni di viaggio in condizioni disumane, Árpád fu dirottato ai lavori forzati nell’Alta Slesia, mentre la moglie ed i figli furono subito destinati alle camere a gas nel settore di Birkenau.
C’era la neve ad Auschwitz
Árpád Weisz rimase ai lavori forzati quasi sedici mesi. Poi, sfinito, fu anche lui mandato ad Auschwitz dove, senza conoscere la sorte della famiglia, privato del nome, dell’identità, della dignità, un numero tra i tanti, il 31 gennaio 1944, ottant’anni fa, venne spinto dentro una camera a gas, o forse morì di stenti, l’epilogo non cambia la tragedia. C’era la neve, quel giorno, ad Auschwitz. E c’era la neve anche un anno dopo, il 27 gennaio 1945, quando i cancelli del campo di sterminio furono sventrati dai carri dell’Armata Rossa, l’esercito dell’Unione Sovietica, e il mondo, incredulo, poté da quel momento iniziare a scoprire, con sgomento, cosa è stata la follia nazista.
Árpád Weisz pagò con la vita una colpa che colpa non è. Non è una colpa essere ebrei. Se è una colpa essere ebrei, allora è una colpa essere cristiani, musulmani, induisti, buddisti, atei, e così via. Invece sei milioni di donne e uomini, tra cui il migliore allenatore degli anni Trenta e la sua famiglia, furono eliminati solo perché ebrei. È stato un orrore così grande, inspiegabile, raccapricciante, da sembrare impossibile. Invece è avvenuto tutto otto decenni fa, niente nella storia dell’Umanità. Un abominio. Non dimentichiamo cosa è accaduto negli anni del delirio nazista. LEGGI TUTTO